L’importante è arrivare primi
Museo del design industriale di Calenzano

museo-calenzanoNon potevamo non parlarne. Il primo museo del design italiano. Milano? No, Calenzano, in provincia di Firenze. Le vicende non sono nuove, ormai risalgono al 4 maggio 2006, quando dalla collaborazione fra il corso di laurea in Disegno industriale della Facoltà di architettura di Firenze, il comune di Calenzano e la Fondazione Anna Querci è nato il Museo del design industriale. Un parto strano, a nostro parere; e già il nome di battesimo – nell’insensatezza dell’espressione anglo-italiana – desta perplessità. Ma non attardiamoci in questioni nominalistiche (anche perché, invero, ci sarebbe fin troppo da dire), guardiamo la sostanza.In sostanza, anticipiamo che sono variegate e anche contraddittorie le informazioni che si ricavano dal sito web della Fondazione; ma procediamo con ordine.«L’idea della Fondazione non è un caso [perché mai dovrebbe essere un caso?]. È venuta piano piano considerando che l’Italia, patria della creatività e del design, non aveva ancora un Museo del Design Industriale [meglio, perché all’Italia, se mai, serve un museo del disegno industriale]. Molte città, fra cui Milano, ne parlano da anni ma ancora nessuno si è fatto avanti ad aprirne le porte.»Per questo, come apprendiamo dalle dichiarazioni di Anna Querci – nel video realizzato da Florence Tv, da cui è anche possibile prendere visione dell’allestimento («curato dall’architetto Lorenzo Querci, docente presso il corso di laurea in Disegno industriale, in collaborazione con alcuni studenti dello stesso») – «siamo arrivati per primi perché le altre città ne stanno parlando da tanti anni ma per ora non hanno ancora aperto alcun museo». Insomma il primato prima di tutto, questo sembra essere il progetto principe del museo.Ma in che cosa consiste codesto museo? Quale il posseduto, quali i criteri di raccolta, archiviazione, catalogazione e, infine di esposizione?Si tratta di cento pezzi selezionati ed esibiti in occasione della mostra Italian Beauty: 100 esemplari al top. Trasformazioni nel design moderno (Firenze, 14 ottobre-2 novembre, 2005; Calenzano, 11 novembre-8 dicembre 2005). Riepiloghiamo quel che scrive Anna Querci su questi oggetti e sul progetto nel testo che può essere letto integralmente dal sito della Fondazione.Insomma viene detto che la collezione:- comprende il design italiano dal 1960 a oggi, con cento pezzi e più;- è una «libera scelta»;- è una «collezione personale e particolare».Inoltre, come organizzazione e obiettivi:- «non vuole essere solo una raccolta di pezzi belli e significativi» (eppure è una collezione personale e particolare…);- è strutturata «per decadi e/o per ideologie [?]»;- è un «excursus tipologico [?] del modo di vivere moderno»;- rappresenta «un gusto e un genere [sic] […] sempre all’avanguardia, sempre alla ricerca dell’estetica, della funzionalità e del rigore nelle linee e nelle forme»;- testimonia «l’evolversi dei materiali, dello stile, delle mode nel design»;- testimonia «la creatività e l’evoluzione di un gusto sempre attuale, al di là delle mode temporanee» (eppure vuole testimoniare mode e stili…);- sottolinea «lo sviluppo e il collegamento strutturale, formale e tecnologico dei temi fondamentali sia della progettazione che della produzione industriale italiana»;- è una panoramica «delle caratteristiche creative e tecniche che hanno reso celebre in tutto il mondo la produzione industriale italiana».A questo punto, prima di procedere, devo fare una confessione: non ho visitato personalmente il museo in questione, di cui però il servizio di Florence Tv rende bene l’idea; e del resto non escludo che lo farò. Ciò detto, se pure con alcuni limiti – forse qualcosa è mutato dall’inaugurazione –, ci pare di poter comunque fare qualche considerazione.Dunque, da quanto si legge, l’impressione che si ricava è che la libertà di cui si dice («libera scelta») stia invece per “arbitrio”. E non perché gli obiettivi indicati – testimoniare l’evoluzione di gusto e stili, gli sviluppi tecnici e tecnologici – non siano anche condivisibili, ma perché non ci pare che il museo come realizzato e allestito li rispecchi. Cento (e più) singoli oggetti, semplicemente collocati su banchi o piedistalli grigi con una targhetta-didascalia, basterebbero al pubblico fruitore per avere una lettura, interpretazione e cognizione degli sviluppi di oltre quarant’anni di società, tecnologia, moda, industria e, naturalmente, design? Ci riesce difficile crederlo, a meno che uno non abbia già da altre fonti una tale conoscenza.E ancora, potremmo (ma non vogliamo!) pure tacere del commentatore del servizio di Florence Tv che – pur sempre ispirato, certamente, dai curatori dell’evento – dichiara che il museo «rappresenta una vera e propria innovazione di modernità, anche perché va oltre la mera funzione di museo [sic!]»: trascurando anche qui il significato letterale e affidandoci allo spirito delle parole, in che cosa consiste questa innovazione museale, che poi sarebbe addirittura “oltre” le funzioni di museo? Dichiara Anna Querci che lo scopo non è «statico, nel senso di un museo fermo e fine a se stesso ma prevede una serie di attività proprio per dare l’opportunità agli studenti di approfondire i loro studi […] perché il museo dev’essere vitale, non deve essere morto». Ora, da quando in qua un museo è qualcosa di statico, fermo e fine a se stesso? D’accordo che molti musei e cosiddetti musei lo sono, ma “il museo” tale non è e non deve essere, com’è noto. Querci sottolinea inoltre, ma come se fosse una novità, che il museo deve essere vitale (forse intendeva “vivo”, in quanto contrapposto a “morto”); però molto dipende da quale tipo di vita s’intende condurre.Per completezza non possiamo tralasciare nemmeno quel che ha detto Emilio Ambasz, presente all’inaugurazione: «Questo è un museo che non solo fa custodia dei prodotti del design di valore ma essendo collegato con la scuola aiuta anche la produzione di patrimonio. Pertanto ha due funzioni quella di custodia e quella di promuovere la produzione del patrimonio. Quando ero curatore del Museo di arte moderna di New York solamente noi facevamo custodia e qui mi sembra si sia fatto un passo avanti […] come impresario o almeno come patrocinante di un’attività industriale». Che apre quanto meno qualche interrogativo su quel che accadeva a New York.E il professor Massimo Ruffilli, “presidente” del corso di laurea in Disegno industriale della Facoltà di Architettura di Firenze, ricorda che «sono pochi i musei del design anche a livello mondiale, abbiamo il MoMA di New York, abbiamo il museo di Londra, però noi qui abbiamo fatto questa iniziativa […] in concomitanza con la presenza del corso di laurea in Disegno industriale dell’ateneo fiorentino, ovvero un museo vicino al mondo della formazione dei giovani».A parte che i musei di design o con collezioni di design nel mondo sono ben di più e altri rispetto a quelli citati dal professore, che non sono nemmeno i casi più significativi, quale tipo di formazione si intende dare ai giovani esibendo oggetti, prodotti finiti come si potrebbero trovare in tanti showroom o fiere, o sicuramente in tante foto già vedute mille volte?E il nostro amico cronista del servizio tv sottolinea come gli oggetti siano presentati in un «mix che annulla completamente le distanze temporali di questo lungo lasso di tempo»; ci pare che abbia ragione, solo che non è una bella cosa come lui crede.Del resto forse l’ansia di stabilire primati fa pure dimenticare una discreta storia anche italiana, quella delle scuole d’arti applicate, industriali, sorte in varie nazioni dopo la metà dell’Ottocento, spesso in relazione con collezioni e musei di arti applicate, istituiti proprio con fini educativi, formativi e di promozione della produzione. Di questi temi, in relazione alla tematica dei musei d’impresa, si è occupata e si occupa per esempio Fiorella Bulegato, in particolare nella sua tesi di dottorato Dai musei delle arti industriali ai musei d’impresa. Un servizio alla cultura del progetto (Dip.to Itaca, Università La Sapienza, Roma, 2006).Dulcis in fundo, quasi ce ne dimenticavamo. A margine di tutte le affermazioni su come il Museo di Calenzano dovrebbe testimoniare evoluzione di tecnologia, società, industria, stile, senza cedere però alle mode e al già visto, sta il fatto che la collezione e il progetto espositivo da cui nasce si chiama Italian Beauty: 100 esemplari al top. Quindi una questione estetica. E anche il nostro amico commentatore, nel servizio tv, parla dei pezzi esposti come di «bellezze più o meno tecnologiche».Da quel che leggiamo e vediamo a proposito del Museo del design industriale, ci pare di poter concludere che: c’è un fraintendimento di base su cosa siano i musei; sembra esserci uno scollamento fra dichiarazioni velleitarie e reale consistenza e pregnanza del progetto (se c’è un progetto). Non crediamo che questo sia o possa essere ritenuto quel che dice di essere (andremo sicuramente a verificare, comunque).Avanti un altro.