(All)ora come ora

ugolapietraIl 9 novembre [0], in Triennale abbiamo sfogliato e acquistato una rivista in cui abbiamo intravisto un articolo di cui riportiamo di seguito brani consistenti, perché ci sembra lettura proficua per le aderenze e le coincidenze con certe attualità – in taluni passi sorprendenti –, come pure per le differenze e le distanze; comunque, per le riflessioni che impone (di ogni segno). In ragione di ciò, anziché segnalare puntualmente aderenze, coincidenze e distanze, per assicurare la pregnanza senza tempo che emerge dagli argomenti presentati nell’articolo – fra l’avis e il memento, comunque li si valuti più o meno condivisibili –, rimandiamo alla fine il nome dell’autore, quello della rivista e gli altri dati bibliografici. Per lo stesso motivo abbiamo deciso di eliminare i nomi di persona, segnalando gli omissis e rinviando alla fine, come note, i dati per completezza. Apparentemente un gioco, in realtà un confronto fertile, ché alla fine i riferimenti son dati.«Quando questa nota verrà pubblicata, saranno forse maturati fatti nuovi alla Triennale di Milano, se si sarà tenuto fede al proposito originario di realizzarla nel tempo come “museo in progress, come struttura permanente e sistematica di elaborazione e di produzione culturale”. Ma mi pare opportuno, comunque, in questo che sembra quasi un suo anno zero, verificare meglio i propositi e le intenzioni secondo cui dovrebbero attuarsi il nuovo assetto e le nuove finalità. Affidiamoci alle parole del Presidente del Consiglio di Amministrazione […] [1]. “Apriamo per sfida”, egli ha dichiarato, “contro una pervicace volontà politica di affossare la Triennale, contro una burocrazia che ha ritardato in tutti i modi provvedimenti vitali per la sopravvivenza dell’Ente, contro l’arroganza di interessi privati…”. Ma sfida anche culturale, egli aggiunge, intesa a stabilire “quale identità culturale dovesse essere attribuita ad un Ente che in 50 anni di vita aveva, più o meno, mantenuto sempre la stessa formula; quale finalità proporsi per adeguarsi ad un contesto culturale e sociale invece profondamente maturato. La sfida era anche quella di chiedersi se la Triennale, oggi, potesse ancora avere un significato”. Si apre così un dibattito abbastanza allargato e articolato, nel corso del quale si decide di fare una Triennale nuova, una “Triennale profondamente diversa dal passato”. Dovrà essere un museo vivo, “lontano dalla concezione accademica, chiusa, aristocratica dei musei e di tante istituzioni culturali italiane, contenitori austeri di opere d’arte, luoghi di transito più che di rapporto reale tra l’istituzione e l’utenza. Un museo… che si realizza e acquisisce un’identità giorno dopo giorno, che non si limita a promuovere lo svolgimento di un numero maggiore di mostre o manifestazioni di tipo tradizionale, ma che è anche laboratorio in cui si progetta, si lavora, si produce, si fa sperimentazione e ricerca”. E fermiamoci qui, almeno per ora. Il programma, come si vede, non è carente né rinunciatario: ambisce anzi, come deve, ad una ampiezza e complessità che davvero potrebbero allineare la Triennale alle maggiori istituzioni internazionali. Da molti anni, ormai, si pensa, si parla e si scrive in questi termini, auspicando e propugnando (a parole più che con i fatti per la verità) una trasformazione integrale degli enti culturali e del loro modo di esser arcaico, se non decrepito, anche sul piano istituzionale. […] [2] Ora […] [3] la Triennale riprende e rinnova propositi ed istanze già proprie della cultura più avvertita, prospettando un diverso futuro. Vediamo, intanto, i due problemi centrali: quello del museo in progress, e quello della efficienza dell’azione culturale nei confronti di una comunità allargata che non sia soltanto la società dei dotti: problemi che del resto hanno vari punti e aspetti di collegamento. È chiaro che il passaggio da una manifestazione-esposizione avente il compito di riflettere, prospettare e chiarire i temi e le ragioni emergenti di un certo periodo o momento, a un organismo propulsivo o creativo che dir si voglia, capace di dirottare scelte, decisioni e priorità, e di incidere attivamente e costruttivamente sul corso degli eventi, comporta un radicale mutamento di indirizzo. Occorrono strumenti diversi, strutture diverse, qualità e disponibilità diverse; nonché mezzi congrui erogati non una tantum, ma garantiti con bilancio adeguato per tempi lunghi. Laboratorio o cantiere che si voglia considerare, e cioè […] [4] “ente organizzatore permanente di cultura, luogo di aggregazione, di incontro, di confronto culturale, di studio”, la Triennale non può esimersi da una ristrutturazione totale, dalla formazione di nuovi quadri stabili, dal reclutamento di uomini seri ed esperti, in grado di lavorare a tempo pieno, e di attuare con continuità e coerenza di intenti, disegni, programmi, iniziative. I quali dunque non sarebbero e non dovrebbero essere poi molto dissimili da quelli di una grande scuola aperta o sperimentale, provvista di un centro di ricerca e di studio, e dotata di ogni necessaria attrezzatura tecnica, ivi compresi naturalmente quei servizi fissi (biblioteca, galleria del disegno, catasto dei disegni, raccolta del design, laboratorio di comunicazione) cui già si riferiscono fin da ora gli organizzatori.I pericoli sono molti: che per troppo credere e parlare si mettano in carta propositi sproporzionati, destinati a restarvi per l’inadempienza e la pochezza delle strutture operative, o per l’inadeguatezza dei mezzi; che l’impostazione generale discenda da premesse generiche e confuse, non verificate analiticamente anche sul piano della correttezza metodica, e che quindi, sia pur computando il valore sempre positivo delle esperienze, si aggiungano ingredienti inerti nel gran calderone del dibattito culturale, da cui sarebbe invece venuto il momento di tirar fuori quanto vi è di non passivamente conformistico e di autenticamente creativo; che si continui a ignorare la reale consistenza dei fenomeni sui quali è necessario incidere, presto e positivamente, e si lavori sui margini dei problemi anziché al centro di essi; che si ceda alla demagogia, malanno oggi di gran moda, saltando le tappe che una seria operazione educativa deve percorrere, se non vuole rischiare di aggiungere all’ignoranza, che rimane, l’illusione di averla superata. E i pericoli possono essere anche altri, soprattutto quando si consideri che non vi sono precedenti diretti da seguire, almeno in Italia, oltre le occasioni parziali che non possono costituire riferimento utile e significativo, specialmente in materia di crescita della cultura e dell’informazione del cittadino.E qui sorge il problema più denso e più grave: quello della comunicazione, su cui non si può non essere assolutamente espliciti, al punto che saremmo tentati di sostenere la formulazione di un ricettario che per nessuna ragione dovrebbe essere ignorato o disatteso. La questione, per la verità, dopo il gran parlare che della comunicazione si fa da ogni parte e in ogni occasione, sembrerebbe di quelle già approfondite e risolte, e lo è in effetti per molti aspetti e settori della produzione e della vita d’oggi. […] [5] Lo sanno bene certi uomini politici, certi giornalisti, certi – pochi – docenti. Non lo sanno, senza dubbio, gli architetti, almeno nella grandissima maggioranza con particolare riguardo alle ultime generazioni. Anche quando hanno idee chiare, fanno di tutto per renderle incomprensibili […]. La situazione è aggravata dall’impiego di simboli, di frasi gergali, di presupponenze di ogni genere. Si viene aggrediti, respinti, frastornati, e si cerca infine refrigerio e ristoro altrove.Ora quello del saper comunicare è un dono di natura, almeno in gran parte. Carlo Scarpa, ad esempio, tra un paradosso e una battuta, un calembour e una interiezione, un gesto e un segno di lapis, rendeva chiaro il discorso e trasparente il pensiero: talvolta un difficile e complesso pensiero. Non scriveva, non faceva “conferenze”, ma sapeva comunicare. […] [6]. Ma quando il dono non si ha, e si hanno al tempo stesso aspirazioni e volontà di diffusione culturale, occorre un lavoro paziente di trascrizione e di controllo di ogni momento e fase del pensiero. Occorre, nel caso di una manifestazione pubblica come la Triennale, la verifica capillare e scrupolosa di tutti i materiali e gli strumenti cui è affidata la comunicazione di certi determinati contenuti. Più specificamente occorre mettere a punto i metodi di visualizzazione, ivi compresi tutti quei sussidi non propriamente visuali che ad essa si debbano accompagnare come opportuni e complementari (vale a dire comunicazioni foniche, sonorizzazioni, testi, didascalie). Fra ordinatore e allestitore – anche quando non vi sia sdoppiamento di responsabilità – si deve stabilire un dialogo finalizzato allo scopo della chiarezza: un’idea, un assunto, una conclusione, una scoperta fondamentali valgono in sé, ma restano senza esito se non raggiungono il destinatario, e se non raggiungono il destinatario, e se non lasciano tracce nella coscienza. […]Per realizzare un’azione efficace e concretamente educativa, è dunque necessario ipotizzare il tipo di visitatore medio, identificandone le disponibilità e le caratteristiche. Cominciando, ad esempio, con la constatazione che la scuola, con tutte le traversie che ha subito, ha aperto baratri di abissale ignoranza […] [7]. Va da sé che l’ipotesi del visitatore medio […] dovrebbe essere sperimentalmente acquisita, una volta tanto, dal vero, prendendo atto di reazioni e di conseguenze reali, verificate e controllate non solo sul pubblico dell’area milanese. Sarebbe, già questo, un bellissimo tema di ricerca […] [8].Se e quando avremo valori e non incertezze, pensieri e non parole vuote, determinazioni e non velleitarismi, bisogno di chiarezza interiore e non acquiescenza alle eteronomie, saremo anche capaci di maturare indirizzi corretti e di comunicarli agli altri. Tra gli obiettivi della nuova Triennale dovrebbe entrare anche quello di sottoporre a critica severa le idee e le istanze correnti in una prospettiva di lavoro a breve, medio e lungo termine. […]»per informazioni e integrazioni all’articolo si leggano le note a seguire:L’articolo citato è di Piero Carlo Santini, Per una nuova Triennale, in “Ottagono”, anno 15, 1980, n. 57, giugno, pp. 20-22.[0] Per nostro interesse, abbiamo voluto precisare la data d’acquisto e lettura della rivista, giacché nell’articolo che si cita vi sono alcune considerazioni (in specie quelle sui “pericoli”, sulla funzione educativa, sugli obiettivi e sui potenziali visitatori) che trovano piena consonanza (o viceversa) con talune riflessioni da noi condotte autonomamente ben prima di leggere codesto articolo, e riassunte in parte in un documento – dal titolo Design nei musei. Ipotesi di museologia per il design – proposto il 24 ottobre scorso in sede di presentazione del tema di ricerca all’interno del Dottorato in design del prodotto e della comunicazione, Dipartimento delle arti e del disegno industriale. Senza qui riportare integralmente il testo, ci citiamo in particolare per un passaggio: «ricorderemo anche, da un lato, che i musei sono, in varia misura, specchio della società e della cultura che li produce, quindi anche dei paradigmi, delle continuità e delle intermittenze, delle presenze e delle assenze; dall’altro lato rammenteremo che – per quanto funzione non originaria ma ormai costitutiva dei musei – il ruolo didattico degli istituti museali ed espositivi, allorché sia prodotto di una autonoma attività di ricerca (che si affianchi, dunque, ma sia indipendente da quella di altri soggetti, come le università), molto potrebbe contribuire a una differente percezione di che cosa il design sia, o meglio della complessità della disciplina, assumendo che design non sia solo questione formale, stilistica ed estetica. (E se è vero che la disciplina è ormai istituzionalizzata, non possiamo non notare come durante il percorso formativo nostrano/italiano difficilmente si entra in contatto con essa prima di approdare al livello universitario, diversamente da quel che avviene, per esempio, per quelle altre discipline nel cui alveo il design è stato a lungo ricondotto o costretto – arte e architettura – oppure da quel che avviene in altri paesi europei.) L’area e il tema scelti ci paiono quindi non lontanamente derivati bensì in stretta relazione con le problematiche della cultura del progetto e del disegno industriale come disciplina, della loro comunicazione, diffusione e promozione». E d’altronde si vedano qui alcuni precedenti post e contrappunti.[1] Giampaolo Fabris. In questo punto dell’articolo, l’autore scrive di lui: «non mi sembra una figura né convenzionale né esornativa, ma un uomo impegnato a fondo nel recupero e nella trasformazione dell’istituzione.»[2] Seguono riferimenti alle vicende d’allora della Biennale di Venezia.[3] Si tratta della XVI edizione della Triennale. Online non se ne trovano tracce consistenti, solo frammenti sparsi da ricomporre, sicché ricorriamo, tanto per inquadrare gli eventi, a Elena Del Drago, La Triennale di Milano. Design, territorio, impresa, il progetto nella narrazione di Davide Rampello, con Michele De Lucchi e Aldo Bonomi, luca sossella editore, Roma 2004, pp. 76-77: «Per uscire dal sostanziale fallimento dell’edizione precedente, dalle disfunzioni interne e soprattutto per recuperare un prestigio culturale che si andava perdendo, per la XVI Triennale si decise di non realizzare una mostra identica a sé stessa per tutta la sua durata, ma piuttosto di diluire le diverse attività nel tempo, trasformando il Palazzo dell’Arte in un laboratorio aperto agli sviluppi e agli eventi in un arco di tre anni, dal 1979 al 1982. Fu soprattutto il sociologo Gianpaolo [sic] Fabris, che presiedeva il Consiglio di amministrazione, a volere questo cambiamento gestionale e operativo piuttosto che cercare un cambiamento a livello esclusivamente espositivo. […] Questa strategia si concretizzò in una serie di mostre ad ampio raggio e di eventi che, suddivisi in tre cicli successivi, avvenivano quasi in tempo reale. Le sette aree tematiche definirono un campo d’azione davvero molto ampio: Conoscenza della città, Progetto d’architettura, Sistemazione del design, Il senso della moda, Lo spazio audiovisivo, Galleria del disegno e il Catasto del design. Per la prima volta vennero introdotti argomenti come la moda e la comunicazione audiovisiva, mentre una nuova generazione di architetti e designer coinvolti riuscì ad aggiornare l’esposizione sulle ultime problematiche progettuali. Dal 15 dicembre 1979 al 3 marzo 1980 si tenne il primo ciclo che fu organizzato in mezzo a mille difficoltà economiche e pratiche. Il Palazzo dell’Arte, infatti, versava in uno stato di semi abbandono, mentre i finanziamenti erano piuttosto limitati. […]».[4] Il testo citato di seguito è tratto, vien detto, dalla Guida d’allora alla Triennale.[5] Segue un riferimento a Fiat e Olivetti.[6] Segue un riferimento a Saper vedere di Matteo Marangoni.[7] L’autore si riferisce in specie ai licei artistici, dai quali provenivano allora molti di quanti poi si iscrivevano alle facoltà di architettura, e dei quali egli auspicava l’immediata chiusura «con provvedimento d’urgenza».[8] Il seguito del testo è strettamente orientato alla critica delle operazioni messe in atto in occasione della XVI Triennale, primo ciclo (1979-1980; vedi supra [3]), senza con ciò cedere alla opposizione tout court. Santini rileva infatti l’impegno della sfida – l’apertura della Triennale nonostante le condizioni economiche e strutturali critiche – ma non trascura precisi riferimenti per «far cose buone, serie, costruttive, la cui funzione ed efficacia possa superare i tempi ristretti delle mostre».L’immagine in testa è un particolare della immagine pubblicata a corredo dell’articolo, che ritrae Ugo La Pietra sullo scalone della Triennale, nel suo film La grande occasione, 1972.