Design fra mito e storia

miti_oggiTemendo, per ignoranza, di sfidare il vero – insomma di errare – allorché ci accade di ritenere che per una migliore conoscenza e diffusione della cultura progettuale ci sia ancora lavoro da fare; che talune carenze, assenze o ripetizioni – dalla storiografia alla critica, fino ai musei o alle mostre temporanee – siano segnale di come il “design” (non) è inteso; che certe relazioni del design con altre discipline, laddove trattate con univocità e tentazioni d’assolutezza, contribuiscano a rendere profittevolmente – per alcuno – confusa e banalizzata l’idea (con la minuscola, s’intende) e la conoscenza della disciplina; e temendo, soprattutto, di confondere il paese con il mondo, abbiamo cominciato ad allungar lo sguardo attorno, ovvero a leggere un poco più di quel che s’è scritto altrove, in altre nazioni, quelle in cui – almeno per quanto presso di noi sembra – il design ha avuto una storia disciplinare precedente o meglio chiarita… Ora, non è che la nostra ignoranza sia sparita d’un tratto, anzi s’accresce (strana cosa, codesta). Ciò che però ci pare è che per questa ingorda bestia ci sia cibo da mangiare, in discreta quantità, a voler abbandonare la dieta mediterranea finora per lo più seguita. Torneremo, speriamo, a più riprese su queste pietanze – tedesche e britanniche, ma anche americane ecc. –, piatti preparati con metodo e ricchi di storia. E molto pertinenti per i temi di cui ci vogliamo occupare. Giacché i musei sono proprio «istituzioni che conservano la storia e la memoria della storia» (Giovanni Pinna) – laddove conservazione è di materiali collezioni e di immateriali contenuti, i quali sono, ormai dagli Annali, documenti, materia prima per gli storici, dunque per l’interpretazione di ciò che è stato, di quel che siamo e pure, in funzione critica, di quel che potremmo essere.Un’interpretazione, dunque, che non deve essere ripetizione di un canone né giustificazione lineare del presente… E così, per trasferirci allo specifico del design, ci si potrà accontentare, per la sua storia e per la sua narrazione esposta (musei, mostre), solo di una sequenza di nomi, successi, prodotti? Sarà sufficiente una successione di icone o classici, sempre già visti, gli stessi pezzi in libri e riviste, nei musei e pure in fiere e showroom? Question propriamente di storia.Prendiamo spunto da un doppio paper davvero interessante, quello di Clive Dilnot, The State of Design History, I: Mapping the Field e II: Problems and Possibilities [1984] (in Design Discourse, a cura di Victor Margolin, University of Chicago Press, Chicago 1989, pp. 213-250); in realtà sono molti gli spunti, ma per ora ci soffermiamo su uno di quelli che aprono il secondo dei due saggi.Riporta Dilnot che negli anni trenta del Novecento a Cambridge Ivor Armstrong Richards, con uno dei suoi esperimenti di critica letteraria, dimostrò che «the most highly trained students of English literature could be taught what the canon of literature consisted of, but they could not produce for themselves its implicit variations. These findings produced a minor crisis within the study of literature and led almost directly to the domination of criticism in literary studies». Sicché la letteratura cominciò a essere ridefinita in termini di “valore” e lo studio della letteratura a esser circoscritto a un numero ristretto di testi “canonici”, con tre conseguenze: la negazione o la non considerazione della scrittura, dell’atto del comporre; la rimozione della storia dei testi e dei processi storici secondo i quali il canone della letteratura inglese è “prodotto” e non già dato; la riduzione dei testi inclusi nel canone a una unica identità (nazionale).Prosegue Dilnot, a chiarire il perché di tal esempio: «True, the parallel with literary studies should not be taken too far. At present, there is no real discipline of design criticism, but a canonical list of “important” designs and designers is rapidly being established […]» – ricordiamo che il testo è del 1984, ma le conseguenze ci paiono piuttosto attuali – «Therefore, the history of design in this sense is approaching a recitation of such “important” works, with the consequences that the historical processes that gave rise to them are gradually disappearing. The values that the “important” works possess are increasingly being tacitly accepted as lying outside the realm of history». E aggiunge: «Most important, the whole process tends to obscure, rather than to illuminate, the design process. Thus, the second effect of failing to distinguish the “multiple content of design”, as Necdet Teymur put it, is the paradox of removing history and design from design history!». La rimozione della complessità, l’appiattimento e la riduzione del design in una tradizione lineare di pezzi importanti, in un concetto indistinto – il Design – equivale alla perdita della dimensione storica, all’impossibilità di comprendere e di conoscere.«In professional design practice and design education, and now possibly in design history, a mystique of design, an almost mythic and artificial set of largely esthetic values, is being created. In history this development has the very real possibility of turning the writing history into the writing of myth.»Sicché, parlando di miti, Dilnot non può che rimandare alla viva parola del Roland Barthes di Mythologies (e che noi citiamo dall’edizione italiana Miti d’oggi, Lerici, Milano 1966, p. 142 s.): «… il mito ha il compito di istituire un’intenzione storica come natura, una contingenza come eternità. […] Al mito il mondo fornisce un reale storico, definito, per lontano che si debba risalire nel tempo, dal modo in cui gli uomini lo hanno prodotto o utilizzato; e il mito restituisce un’immagine naturale di questo reale». Il mito «si costituisce attraverso la dispersione della qualità storica delle cose: le cose vi perdono il ricordo della loro fabbricazione»; il mito sottrae «alle cose il loro senso umano», il «rapporto dialettico di attività» e le riduce a «un quadro armonioso di essenze», ovvero «abolisce la complessità degli atti umani, dà loro la semplicità delle essenze»; inoltre costruisce un mondo privo di contraddizioni «perché senza profondità, un mondo dispiegato nell’evidenza, istituisce una chiarezza felice: le cose sembrano significare da sole»; ma il mito «non nega le cose, la sua funzione, al contrario, è di parlarne; semplicemente le purifica, le fa innocenti, le istituisce come natura e come eternità, dà loro una chiarezza che non è quella della spiegazione, ma quella della constatazione». Per cui, laddove si intenda politica «nel senso profondo, come insieme dei rapporti umani nella loro struttura reale, sociale, nel loro potere di fabbricazione del mondo», ne consegue che il mito – la cui funzione, in definitiva è di «svuotare il reale […] un deflusso incessante, un’emorragia […] un’evaporazione, insomma un’assenza sensibile» –, insomma il mito «è una parola depoliticizzata» (dando al de- «un valore attivo» perché «rappresenta in questo caso un movimento operativo, attualizza incessantemente una defezione»).Dilnot non riprende Barthes per esaminare o verificare se si sia raggiunta quella «conciliazione del reale e degli uomini, della descrizione e della spiegazione, dell’oggetto e del sapere» (ivi, p. 250) che il francese auspicava in conclusione. Piuttosto, come noi “usiamo” Dilnot, lo colloca nel suo ragionamento per segnalare come il mito abbia finito per l’operare anche nella storia del design, manifestandosi nella «reduction of its subject matter to an unproblematic, selfevident entity (Design) in a form that also reduces its historical specificity and variety to as near zero as possible».Dilnot scriveva nel 1984. Per richiamare un’altra delle pietanze straniere cui abbiamo fatto cenno supra, dobbiamo pensare che in quegli anni, quelli del cosiddetto Nuovo Design, si poteva peraltro assistere a esposizioni dal titolo I mobili espliciti di per se stessi (Wuppertal, 1985; cfr. Bernhard Bürdek, Design. Storia, teoria e prassi del disegno industriale, Mondadori, Milano 1992, p. 65); certo qui le implicazioni erano anche altre – e si dovrebbe rendere conto di tanto altro di quel periodo e di molto altro sul disegno industriale.Per ora, suggiamo a noi stessi che dovremo valutare come si sia formato l’insidioso appiattimento destoricizzante – per tramite di storiografia, teoria, critica e curatori (per tutti: o sedicenti tali) – e se i suoi effetti siano ancora presenti, in qual misura e con qual peso per la cultura del progetto e la cultura in genere. In questo è proprio la storia a venirci incontro, giacché «la mitologia può avere solo un fondamento storico, perché il mito è una parola scelta dalla storia: il mito non può sorgere dalla “natura” delle cose» (sempre Barthes, Miti d’oggi, cit., p. 204). Barhtes si proponeva di “demistificare” – non che noi si creda di poter esser come lui, ma almeno di tenerlo come faro per guardare e interpretare, ché l’universo dell’intenzionalità mitopoietica ci pare non attenuarsi: «Il punto di partenza […] era il più delle volte un senso di insofferenza davanti alla “naturalità” di cui incessantemente la stampa, l’arte, il senso comune, rivestono una realtà che per essere quella in cui viviamo non è meno perfettamente storica: in una parola soffrivo di vedere confuse ad ogni occasione, nel racconto della nostra attualità, Natura e Storia, e volevo ritrovare nell’esposizione decorativa di ciò-che-va-da-sé l’abuso ideologico che, a mio avviso, vi nasconde».