Contrappunto III
Dalle parole ai fatti e ritorno

tdm1Confessiamo di avere avuto qualche difficoltà, un certo fastidio, per arrivare a scrivere il nostro terzo contrappunto (si vedano il I e il II, e inoltre qui); ora che dalle parole si è passati ai fatti. Anche perché ci tocca tornare alle parole, tante, tantissime, rivelatrici, spesso uguali, talora maltrattate: le parole che hanno espresso gli intenti, le speranze, avanzato le (vana)glorie, imposto le spiegazioni dei curatori e dei responsabili dell’ormai nato Triennale Design Museum. Così tante, queste parole, e soverchianti rispetto all’umana possibilità di ascolto e comprensione, da sembrare opera di indottrinamento. La favola del Re nudo (I vestiti nuovi dell’imperatore) è purtroppo spesso presente nella nostra mente. Anche in questo caso, dove troviamo abili tessitori.Museo del design italiano, innovativo, innovativo, innovativo, nuovo, nuovo, nuova tipologia, magia, magico e bla bla. Chi fra i presenti alla conferenza stampa – da Rampello a Moratti, da Formigoni a Rota e Greenaway – non l’ha detto? Pochi o nessuno (anche perché la tradizionale richiesta “ci sono domande?”, rivolta ai giornalisti, è stata stretta tra la chiusura di Rampello e il presto alzarsi di tutti. Insomma pro forma). Forse solo Daniela Benelli, assessore alla Cultura della Provincia di Milano, che ci è sembrata l’unica voce fuori coro… anzi forse l’unica a svolgere la funzione del coro, un commento fuori dalla scena principale delle celebrazioni lontana dai forzati squilli di tromba, un’opinione più sobria e pacata, capace di attingere a parole diverse del nostro ampio vocabolario, a rammentare che, se l’apertura dello spazio del Museo aiuta la città, a Milano c’è ancora da lavorare su diversi fronti. E anche nel Museo.Tornando all’opera di indottrinamento, ci pare che se almeno non avessero profuso tanta forza nello squillare le proprie trombe, i responsabili godrebbero dell’attenuante dell’ingenuità. Si potrebbe essere più comprensivi, come verso chi si affaccia al mondo con un primo tentativo. Ma visto che insistono… il faut parler. Non che non si creda che abbiano tanto lavorato, non dormendo la notte, come han detto. Tuttavia, per inseguire le 7 ossessioni che hanno immaginato possano rappresentare il design italiano, devono aver perso il senso della macchina che avevano immaginato. Al di là di quel che si potrà scrivere basta la visita. Basta entrare per accorgersene. E vien da chiedersi se i tanti banditori in conferenza stampa l’avessero visitato il “Museo” (debbo usare le virgolette, ché non credo di riuscire più oltre a chiamarlo così). Forse non han potuto giacché fino alla mattina del 6 dicembre, come è stato detto dal curatore scientifico Andrea Branzi, com’è «nella tradizione classica delle grandi mostre» l’allestimento non era ancora concluso. (Ma a quale tradizione si rifanno?)A questo punto dobbiamo liberarci del sassolino: il Triennale Design Museum non è un museo. E bisogna che qualcuno pur lo dica. L’unico tentativo in questo senso ci è sembrato il titolo di un articolo apparso in “Nòva”, il supplemento de “Il Sole 24 Ore”, uscito il giorno stesso dell’inaugurazione: Centro di design permanente. Forse il tentativo è stato involontario, visto che l’occhiello anticipa “A Milano il nuovo museo”, ma tant’è. Sì, perché come già avevamo immaginato non si può dire che in Triennale sia nato un museo, e la definizione che potrebbe meglio avvicinarsi a quel che si vede e “centro” o center; benché anche usando questo termine si dovrebbero poi fare molte osservazioni. Ma visto che in Triennale insistono nel dichiararsi museo, riferiamoci per ora a questa pretesa.Il TDM (abbreviamolo così) non possiede infatti una collezione permanente, o meglio ce l’ha, ma anziché esporla e valorizzarla la “conserva” (come?) lontano dagli occhi e dai cuori degli appassionati; ha deciso inoltre di attingere per le proprie esposizioni ai numerosi giacimenti delle imprese lombarde che hanno sottoscritto una convenzione con la Fondazione (da cui la ripetuta considerazione “Milano è un museo del design”, con le varianti geografiche “la Lombardia è un museo del design”, “L’Italia è un museo del design”). In altre parole il TDM diventa un front-office, il luogo di rappresentanza in cui mettere in relazione tali patrimoni, messi a disposizione da imprese e collezioni diffuse sul territorio. Il TDM è flessibile, mutevole, “mutante” (così lo definisce, in maniera inquietante Silvana Annicchiarico, direttore della creatura [È buffo il linguaggio usato nei comunicati; per esempio: «A dirigere Triennale Design Museum è stata chiamata Silvana Annicchiarico» come se fosse stata scelta fra una rosa di candidati esterni; infatti, come prosegue subito il comunicato stesso, Annicchiarico «da 9 anni è il Conservatore della Collezione Permanente…»]).Privato della esposizione permanente, il TDM è il contenitore neutro per diverse narrazioni che si succederanno nel tempo; si è parlato di una periodicità di 12-18 mesi, ma qualcuno in “La Repubblica” (7 dicembre) ha scritto “18-24 mesi”: e speriamo che sia un refuso! Insomma un centro, appunto, per esposizioni temporanee affidate a questo o quel curatore. Non un museo, ché il museo si fonda sullo stretto rapporto con la collezione permanente che conserva ed esibisce come propria identità. Mentre in Triennale se c’è qualcosa di evidente è proprio la mancanza di identità, che è mancanza di identità d’intenti fra i tanti personaggi coinvolti. (E se, come ha detto Rota – exhibit designer con Peter Greenaway – vale per questo “museo” quel che vale per i serial televisivi, ovvero che importante è fare la prima puntata dopo di che la storia continua a episodi, ebbene speriamo che gli sceneggiatori si accorgano che, al di là della qualità, ci sono forse troppi protagonisti, e la storia non reggerebbe a lungo.)Dunque, in Triennale si rigetta la permanenza, come qualcosa di obsoleto e malato; eppure “Nòva” titolava “Centro del design permanente”, e nel “Corriere della Sera”, Cronaca di Milano, di venerdì 7 dicembre, p. 7, troviamo ancora usato questo aggettivo, laddove è dichiarato che il prossimo progetto per la Triennale è un “museo permanente della fotografia”. Di fronte a quel che si vede oggi, ci pare che quando dicono “permanente” evidentemente si riferiscono al Palazzo dell’Arte, che è l’unico dato permanente di queste operazioni. Per cui non illudiamoci sull’uso che del termine viene e verrà fatto. E infatti fra i comunicati stampa troviamo questo: «Un luogo fisico permanente, ma dai contenuti in continua trasformazione, dove arcaicità e tecnologia si combinano…». Sembra l’annuncio di un film, pardon!, telefilm fantascientifico-orrifico: mutazioni, combinazioni, incroci… Ma questa creatura mutante, vien detto subito dopo, ha «l’ambizione di diventare un punto di riferimento internazionale per la complessa questione del recupero e della conservazione degli oggetti e dei materiali contemporanei». La tensione s’accresce. Annicchiarico scrive: «ci saranno – questa almeno è la nostra intenzione – continui cortocircuiti fra il modernissimo e l’antichissimo, fra il futuro e il passato». Altro che museo! Uno s’immagina un laboratorio con scintille e alambicchi: mutanti però, non replicanti, ché qui si sperimenta davvero: «la scelta finale è stata quella di non replicare collezioni o parti di collezioni già esistenti, inseguendo un’impostazione obsoleta che fa dipendere l’esistenza stessa del museo dalla proprietà privata degli oggetti che lo costituiscono». E voi, museologi e conservatori di tutto il mondo, voi, attaccati alla “roba”, incapaci di fondare musei se non avete una collezione notabile e notevole di oggetti, sempre presi a cercare pezzi nuovi coerenti con i vostri intendimenti, tutti intenti a dare corpo fisico permanente all’identità delle vostre istituzioni e delle culture di cui siete portatori: vergognatevi!E quando io ti dico che questa cosa – che non assomiglia a un museo com’è un museo tradizionalmente e convenzionalmente (santa convenzione!) inteso – è un nuovo tipo di museo, ebbene o lo capisci oppure lo sciocco sei tu. E se ti dico che l’imperatore indossa abiti splendidi appena confezionati, mai visti prima, e che sono proprio abiti, e tu non li vedi, ebbene o fai finta di vederli oppure apri gli occhi.Trascurando alcuni refusi che balzano agli occhi qua e là, a leggere i comunicati e ad ascoltare le dichiarazioni dei responsabili si dovrebbe ammettere che per una buona parte i migliori critici negativi dell’attuale TDM sono proprio i suoi autori.Per esempio laddove dichiarano di non voler realizzare una esposizione puramente estetica, perché gli oggetti di design «sono realizzati prima di tutto per l’uso, non tanto e non solo per una fruizione estetico-contemplativa»tdm3che ci si deve allontanare dalle formule del museo di arti figurative e che non si deve ridurre un museo del design a una mera successione di pezzitdm4e che è necessario ricordare che il design non può essere solo o soprattutto identificato con il furniture designtdm5tdm8tdm6o ancora che un museo non deve assomigliare alla vetrina di un negoziotdm7Ma, per una altra buona parte, le dichiarazioni dei responsabili contengono affermazioni per noi difficilmente sostenibili.Durante la conferenza stampa, come pure nei testi diffusi, Branzi ha dichiarato che «a differenza di altri paesi, il design italiano non è nato esattamente insieme alla Rivoluzione industriale», perché «mentre in altri paesi si fa nascere con delle date precise l’industrial design», in Italia nasce «prima negli atelier degli artisti», «la sua origine è molto sfumata, risale a volte anche a epoche molto remote, a una classicità d’epoca paleocristiana»; ora, che uno storico, critico e professore proponga una sua visione per legare il presente e il passato ci pare lecito, e se per Branzi le radici sono gli atelier degli artisti o una sfumata classicità, avrà i suoi motivi (nel suo testo in “L’Europeo” rimanda all’animismo latino e alla cultura misterica italica). A noi però suona stonata quanto meno la distinzione fatta per l’Italia sola, quasi che all’estero ci sian davvero queste date precise di cui lui parla. E non si dovrà nemmeno leggerlo tutto un testo come Industrial Design di John Heskett (Rusconi, Milano 1990, pp. 10-11) – un classico, mica una novità editoriale – per trovare qualcuno che, con un punto d’osservazione certo diverso, scrive – tanto per fare un esempio – che, se pure è particolarmente legato «alla diffusione dell’industrializzazione e della meccanizzazione che comparve intorno al 1770 in Gran Bretagna con la Rivoluzione industriale», non «è corretto ritenerlo un prodotto e una conseguenza inevitabile di quegli avvenimenti», perché «la sua caratteristica essenziale, che è la separazione del design dal processo produttivo, fece la sua comparsa prima della Rivoluzione industriale […] dalla fine del Medioevo in poi». (Fra l’altro due pagine prima, nella Prefazione, Heskett deplora anche i limiti di certi musei e gallerie che hanno l’abitudine «di organizzare esposizioni di oggetti come forme pure, avulse dalla realtà produttiva e dalle esigenze che hanno determinato un certo progetto». Ci pare di rivederla, questa abitudine…) E a volersi spingere più indietro, guardando all’uomo, e non a questa o quella nazione, perché non ricordare qualcuno come George Kubler, La forma del tempo. La storia dell’arte e la storia delle cose (1972; Einaudi, Torino 2002, p. 8): «Le più antiche reliquie dell’opera dell’uomo sono gli arnesi dell’età della pietra. Da questi arnesi alle cose di oggi non c’è soluzione di continuità: è un’unica e lunga serie di oggetti, che si è ramificata più volte ed è spesso finita in rami morti. […] Ma il flusso delle cose non conobbe mai un arresto totale».Sempre guardando ai comunicati, rileggiamo poi Annicchiarico, Un museo mutante: «progettare e realizzare un museo del design è cosa ben diversa dal progettare o realizzare un museo archeologico o un museo di arte contemporanea. I prodotti di design sono per lo più di serie non sono pezzi unici»; noteremo almeno che – stranamente, certo – nei musei archeologici troviamo monete, vasi, chiodi e tanti altri artefatti che se pure non prodotti industrialmente sicuramente non erano unici, anzi! Ma non si voleva andare indietro nel tempo a cercare le radici del fare italiano?A leggere i comunicati vien anche da pensare che ci sia stato qualche cambiamento in corso d’opera, come suggerito anche dal fatto che fino all’ultimo gli exhibit designer non sono stati in grado di illustrare in alcun modo quello che sarebbe stato l’allestimento, anzi l’“installazione”, come la chiamano più correttamente loro. Così nel comunicato di Rota e Greenaway si dichiarava e si dichiara ancora adesso che il TDM sarebbe stato «un museo che parla di oggetti senza molti oggetti». E invece gli oggetti per fortuna ci sono, anche se non sono chiari né chiariti i motivi delle selezioni, né vediamo tracce di altri intenti dichiarati dai due artisti: «un’esposizione […] che faccia vedere il significato degli oggetti del design nell’ambiente originale della loro stessa orgogliosa progettazione», che mostri la «continuità con il passato». Certo non si pretenderà che gli schermi e le proiezioni di Greenaway all’ingresso bastino a raccontare l’affondo storico che si dichiarava di voler esporre. Al TDM si entra e dopo un gioco di specchi e schermi di Greenaway – lo “squillo di trombe” per la gloria del design italiano – si accede a quello che dovrebbe essere un percorso, la cui divisione non è per nulla chiara, e che – immaginandolo da fuori e per restare in un’ispirazione di stampo greenawaiano – ci sembra un pezzo di grigio intestino in cui siano rimasti incagliati pezzi vari di design, tali che hanno causato le 7 ossessioni dei curatori.E qui, dobbiamo dare ragione a Rota, allorché ha auspicato che la gente venga e si senta stimolata a studiare. Lo speriamo anche noi, perché allo stato attuale il visitatore rimane gravato dal vuoto informativo e contenutistico dell’esposizione. Come dire io ti metto lì i pezzi, prendo un pinocchio e una camera da letto di Ponti, poi un po’ di sgabelli Kartell e una poltrona di Mendini, qualche apparecchio di illuminazione, una seduta di covoni di paglia, qualcosa dei Castiglioni… e poi veditela tu, insomma arrangiati, studia, informati, ché io non ho tempo né altro per proporti un percorso critico sensato. Non è un caso allora che Rampello in conferenza stampa abbia detto: «come sappiamo un museo non è solo uno spazio espositivo, ma evidentemente si esprimerà con iniziative editoriali, stiamo preparando insieme a Electa una serie di volumi che affronteranno temi e problemi», che si aggiungeranno al numero monografico dell’“Europeo” che viene dato al visitatore con il biglietto d’ingresso (tempo fa dicevano che era il catalogo, ora dicono che è solo un testo di accompagnamento; anche qui qualcosa deve essere accaduta dalla presentazione di settembre a oggi). Ci chiediamo: se il tanto sventolato con-testo, che si dice un museo deve ricostruire, viene trasformato in testo, letteralmente, cioè rimandato a una serie di pubblicazioni, allora significa che non sei stato capace di fare quel che ti prefiggevi con la tua esposizione, che infatti del contesto degli oggetti non è in grado di raccontare alcunché. Se sono necessarie tante pubblicazioni per illustrare tutto quel che gravita attorno al design, allora il preteso Museo non è riuscito nel suo intento, perché volenti o nolenti quegli oggetti colà esposti sono abbandonati a se stessi. Se alla fine si è rimandati ai libri, alle foto ivi stampate, ai testi, allora a che pro tentare di fare un museo?Intendiamoci, però. Il nostro auspicio non è che le persone disertino la Triennale, anzi. Speriamo che siano in molti ad andare e vedere con i propri occhi, in molti a esprimere ad alta voce giudizi come quelli che, ascoltando qua e là durante la visita per la stampa, si potevano sentire. Che siano in molti a chiedere qualcosa di diverso, uno sforzo differente, non per forza innovativo ma capace di rendere un servizio concreto e effettivo alla “cultura del progetto”, tanto citata in conferenza stampa. Quella cultura del progetto che, per come è presentata in questa esposizione, rischia di fare notevoli passi indietro, soprattutto di fronte a un pubblico non specialistico, il quale ultimo invece può avere già assimilato altrove i propri riferimenti e può sempre girare i tacchi. Nel TDM il “progetto” non c’è, non c’è nulla del contesto che circonda ognuno dei pezzi presentati, niente delle vicende storiche, economiche, sociali, tecnologiche, industriali che potrebbero raccontarne le ragioni.Non giovano quelle che – confermando lo spirito televisivo dell’installazione (evidente anche nel cosiddetto Teatro Agorà, una sala conferenze che sembra piuttosto un perfetto studio per talk show) – dovrebbero essere le didascalie: piccoli schermi in cui per ogni pezzo – senza alcuna cura grafica e tipografica – sono brevemente raccontate le vicende e presentate alcune immagini. Ma a che servono le foto se ho il pezzo davanti a me? A che cosa serve un museo allora? E, soprattutto, quale criterio di ergonomia cognitiva e di allestimento museografico ha portato a questa soluzione, visto che, se non bastasse, ogni schermo deve servire tanti pezzi: che cosa succederà con la prima scolaresca, se mai una verrà in visita?Nonostante quanto dichiarato dai curatori, quegli oggetti su pedane e entro teche rimangono presi per sé, o persi in sé, come pezzi unici di mero valore estetico: completamente muti, assordati da musiche e immagini poco comprensibili. Muti anche allorché sono raccolti in massa, come i tanti sgabelli e sedute collocati all’esterno e visibili da una finestra: una massa di oggetti che pare un negozio, o meglio il magazzino di un negozio, giacché Kartell, per esempio, quando presenta nelle sue vetrine gli stessi pezzi li dispone con migliore ordine e li accompagna almeno con un cartellino esplicativo. (Su questi pezzi esposti alle intemperie cominciamo a immaginare che ci diranno poi, quando saranno rovinati dalla pioggia o dal freddo, che si tratta di un’opera complessiva in cui si esprime il passare del tempo, il cielo che si è seduto e ha usato sedie e sgabelli, un’opera unica creata in Triennale e chissà quali altri blabla. Siamo avvertiti, qui si produce cultura!)Sui cortometraggi realizzati dai registi chiamati a rappresentare le sette ossessioni del design italiano, non c’è molto da dire. (Gli abbinamenti sono: La luce dello spirito/Antonio Capuano, Il super-comfort/Pappi Corsicato, La dinamicità/Davide Ferrario, La democrazia impilabile/Daniele Lucchetti, Il teatro animista/Mario Martone, I grandi borghesi/Silvio Soldini, I grandi semplici/Ermanno Olmi.) Per come sono presentati e per quel che contengono non dicono molto che possa aiutare il visitatore, per non dire che potrebbero anche disorientare: poiché se, per esempio, i curatori dichiarano di volersi tenere lontani da un modello espositivo estetico, poi si trovano un Olmi che ha dichiarato di essersi soffermato sugli oggetti che conserva in casa, oggetti non più in uso, fabbricati nel passato e che lui conserva perché «sono belli»; e per lui un museo dovrebbe essere così, come una casa, in cui si conservano gli oggetti per il loro valore estetico o emotivo.(Ma la fortuna di tanti curatori, come di molti altri, è che la gente non ascolta, non legge, non ricompone i frammenti, per cui tutto si tiene. O così credono loro.)Al più, i corti, possiamo intenderli come suggestioni, evocazioni di una certa Italia – una certa Italia che però bisogna già conoscere per poter apprezzare; e non a caso, davanti alla proiezione del film sui Grandi borghesi si sono fermate soprattutto eleganti signore di una certa età. Davanti a quella parete, sotto la quale se ne restavano invece totalmente silenti pezzi come la Leggerissima di Ponti, si poteva udire anche il Mastroianni felliniano chiedersi se il calo di creatività non sia permanente. Ecco, sì, speriamo che questo non sia permanente, come le installazioni che sono destinate a essere sostituite. Così, fra un anno e mezzo, forse non troveremo ad accoglierci il sorriso beffardo di tanti Pinocchio, che ha un po’ il senso di una presa per il naso.tdm11