Period e design(er) room,
fra Parigi e Amsterdam

mad1Musée des arts décoratifs, là où le beau rejoint l’utile”, così si presenta il museo di Parigi, le cui sale sono state riaperte al pubblico nel 2006 dopo dieci anni di chiusura, di cui cinque di lavori, e dopo la firma di una nuova convenzione con lo stato francese (Les arts décoratifs nacquero infatti come associazione privata nel 1882, approvata dallo stato e riconosciuta avente pubblica utilità; aperte al pubblico nel 1905 al Louvre, padiglione Marsan, solo nel 1920 le collezioni sono definite proprietà dello stato che, oggi come allora, provvede alla retribuzione dello staff mentre acquisizioni e allestimenti sono in carico alla Union centrale des arts décoratifs). L’assunto che nelle sale rinnovate il bello si congiunga con l’utile si riferisce non però all’esposizione in sé (come atto dell’esporre), bensì si colloca a monte, in un limbo teorico, e si riferisce al fatto che le collezioni – circa 150 000 pezzi dal Medioevo al XXI secolo, e dei quali sono portati al pubblico 5-6000, in circa 9000 mq – superano la vecchia distinzione fra arti maggiori e minori, (ri)stabilendo il posto delle arti decorative all’interno della storia dell’arte (si veda anche quanto riportato in questo articolo online che si riferisce all’inaugurazione). Dal sito web del museo ricaviamo che tutti gli oggetti esposti «présentent tous les aspects de la production artistique, dans tous les domaines des arts décoratifs, et illustrent les techniques les plus diverses : art du bois (sculpture, mobilier, boiseries), du métal (orfévrerie, fer, bronze, étain), de la céramique, du verre, du cuir (écrins, reliures), de la peinture mais aussi celles, plus modestes, des marqueteries de pailles, de broderies de perles, de tôles peintes…».Ora è ben vero che i pezzi sono i testimoni di tante tecniche, tuttavia dall’allestimento e dal racconto proposto alla vista non si può dire di più. In altre parole: ci sono solo i testimoni. Le tecniche, i materiali, le procedure, le pratiche sono proprio i grandi assenti. A meno di volersi concedere alle lunghe didascalie, pezzo per pezzo, o affidare a un’audioguida, che completi per via auricolare il racconto, questo si snoda visivamente per oggetti e stili, oppure per grandi nomi – come avviene dal nono al sesto piano, dedicati al design degli ultimi sessant’anni.Apprezzando comunque grandemente che tanto sia reso visibile, nel percorrere le sale è difficile non sentire un senso di insoddisfazione che cresce allorché ci si avvicina al contemporaneo. Sarà per stanchezza – il percorso è veramente ricco – o forse perché a certe scelte allestitive e narrative siamo abituati laddove siano riservate al passato lontano, a mano a mano che si procede si sente che il meccanismo espositivo funziona sempre meno, lasciando l’impressione di una carrellata estenuante. E mentre ci si chiede come avrebbero potuto fare diversamente in un museo dedicato alle arti decorative, e a fronte di tanto consistenti collezioni; mentre si riesce, diciamo così, a comprendere l’esibizione di gusti e stili – che sono della Francia, si ricordi, pur, naturalmente, attraverso produzioni non solo francesi, come i vetri veneziani e i cristalli boemi – per le epoche che siamo ormai abituati a conoscere e immaginare sui libri di scuola o dai film in costume (ma forse dovremmo comunque chiedere altro?); ebbene, mentre possiamo accettare o ammirare la ricostruzione di un salone del 1795, quasi fossimo in una casa-museo, il nostro livello di tolleranza scende percettibilmente nelle sale dedicate ai secoli XIX, XX e all’attuale.In misura crescente rimbomba con fastidio nelle orecchie il motto “le beau rejoint l’utile”, perché se pure gli oggetti esposti sono stati di fatto oggetti d’uso, utili e non solo opere da ammirare, proprio il senso della loro utilità, del loro uso, dell’universo produttivo e di “consumo” che li circondava, manca, non emerge. L’utile annega sotto tanta bellezza. Nulla di nuovo, dunque.Non sbagliava quindi il titolo del numero monografico di “Dossier de l’Art” (n. 133, settembre 2006): Le musée des Arts décoratifs. Une étonnante grammaire des styles du Moyen Âge à nos jours. Una grammatica di stili. Del resto, in questa stessa pubblicazione Hélène David-Weill, presidente del Musée, se da un lato dichiara che «le parcours proposé est à la fois une promenade historique, sociologique et chronologique» – ma, vorremmo dire, buona parte della ricomposizione è affidata al visitatore… –, se dichiara che «nous ne voudrions pas qu’on vienne dans ce musée juste pour voir des oeuvres d’art, parce que nous sommes un musée de la vie, de l’environnement», dall’altro, poco prima, si chiede: «Les arts décoratifs n’éveillent pas le même sentiment de beauté que les beaux-arts. Est-ce parce que ce sont des arts utiles, différents de la peinture ou de la sculpture? Or un fauteuil orné de sculpture de bois ou d’ivoire est aussi beau et demande autant de savoir-faire, de réflexion et d’imagination qu’une oeuvre d’art» (Entretien avec Hélène David-Weill, présidente du musée des Arts décoratifs, propos recuillis par Jeanne Faton et Armelle Fayol, ivi p. 4). Certo, entrando in un museo d’arte decorativa non si guarda i pezzi esposti come si guarderebbe la Gioconda, però la relazione fra bello e utile non ci pare pienamente risolta nel Musée – anzi è così flebile che non si giunge nemmeno a sentirla come “tensione” –, e David-Weill prosegue subito dopo: «L’enjeu est de montrer que les arts décoratifs sont à la fois un environnement, une mode de vie et de pensée, une manière d’être heureux, une manière de vivre confortablement, et qu’il sont beaux». Ma allora…?Per tornare all’allestimento, la scelta fatta è stata quindi di un percorso cronologico – per secoli, tranne per gli ultimi sessant’anni divisi per decadi – entro il quale si incontrano, oltre alle vetrine, 11 period room, alcune galeries d’études (selezioni per l’approfondimento, secondo le intenzioni da rinnovare periodicamente) e sezioni specifiche, come quelle riservate ai giocattoli e ai gioielli, o quella della donazione Dubuffet.Quella della period room è una tipologia allestitiva che affonda le sue origini fra fine Settecento e Ottocento, ricercando una «restituzione mimetica» attraverso una messa in scena capace di illustrare le differenze d’epoca (si veda Dominique Poulot, Musée et muséologie, La Découverte, Paris 2005, pp. 23, 53). Tipologia che ha poi trovato ampio seguito sia in Europa (e sulle problematiche che la realizzazione e ricostruzione di period room pongono, in relazione anche alle acquisizioni e alla conservazione museali, si veda anche Sarah Medlam, The Period Rooms, in Creating the British Galleries at the V&A. A Study in Museology, a cura di Christopher Wilk, Nick Humphrey, V&A Publications – Laboratorio Museotecnico Goppion, London 2004, cap. 10, pp. 165-205, per esempio p. 165: «Of all the objects in the [British] galleries, the period rooms were the most complex to install, conserve and present, and certainly the most expensive») sia oltreoceano, a partire dal Museum of Art di Cleveland, la cui apertura nel 1916 sarebbe generalmente ritenuta segnare l’inizio dell’età classica dei musei americani. Scrive Poulot, Musée et muséologie, cit., p. 53, che l’«exercice de la period room, présent en à Cleveland mais qui se développe au Metropolitan de New York en 1924, est une […] figure de la quête d’ensembles, capables de transporter le visteur, à la manière des lecteurs de roans selon Bakhtine, dans un chronotope, une structure de temps prise dans l’espace. Le conservateur et historien de l’art Fiske Kimball, à Philadelphie, repousse les limites du processus à partir de 1928 avec les achats et les transferts d’ensembles architecturaux et décoratifs, aussi bien que la réalisations de period-rooms, afin de réaliser un parcours en forme de main street of art».Dunque le period room rispondono alla richiesta di un “insieme” che superi la frammentazione per oggetti singoli, che consenta un’immersione ambientale, simulando l’esperienza di un’epoca o di un luogo – una richiesta che supponiamo originata già dalla qualità della nostra percezione, che, salvo specifici tentativi, non restituisce elementi isolati ma ci presenta insiemi significativi, complessi “organizzati”. Nel Musée des arts décoratifs di Parigi, fra gli allestimenti di questo genere, sono una novità del 2006 la sala da pranzo di Eugène Grasset (1880) e lo studio-biblioteca di Pierre Chareau (1925).E per il design? Ebbene fra il nono e il sesto piano del museo l’esposizione dedicata al design – quasi esclusivamente furniture – si dispiega attraverso oggetti isolati oppure piccoli insiemi raggruppati per autore, quasi a costituire una sorta di “designer rooms” inserite all’interno di quella grande period room che è appunto la sezione del museo che copre l’arco 1940-2000 e che può sembrare una grande sala simil-showroom o simil-fiera.La “collina delle sedute” ne è l’emblema, con ogni sedia o poltroncina affiancata solo da un numero (per capire chi sia il designer, chi il produttore, quale l’anno, se si è privi di audioguida, si deve fare riferimento alla lunga lista di didascalie a stampa – naturalmente da non portare via con sé ma da riporre nell’apposito espositore); tanto che si ha a tratti l’impressione disagiata di trovarsi di fronte a un baraccone delle giostre, uno di quelli dove se si fa centro in un certo numero si può ritirare il premio corrispondente! Hai colpito il 59? Allora il pezzo di Roger Tallon è tuo! Il 65? Che fortunato, è la Tube Chair di Joe Colombo! Non aggiunge molto nemmeno la sala in cui alcune delle sedute, quasi fossero scese a valle, sono sparse perché il visitatore possa sedersi, mentre su uno schermo scorrono varie immagini. Forse che in showroom, fiere e saloni, o in casa o nello studio di qualche amico non accada già di poter fare questa sublime esperienza? E d’accordo che il pubblico del museo è variegato e non specialista, però…E le designer rooms? Oltre ai semplici raggruppamenti per Charlotte Perriand, Jean Royère o Jean Prouvé, è per alcuni progettisti più vicini ai giorni nostri che troviamo realizzate delle specie di scatole – anche su ruote –, piccoli ambienti claustrofobici, per quanto aperti almeno su un lato, che hanno il sapore di una punizione, di un incubo o comunque di una finzione bella e buona (e non si può entrare, non si può toccare). Reclusi in una stanza a parte, su pedane o esposti in scatole dentro la scatola che è la sala, sono poi Starck, Newson, Arad, Morrison (avevamo criticato quel che si può vedere del Museo del design industriale di Calenzano, ma a vedere questi allestimenti a Parigi si direbbe che a Firenze siano aggiornati). E in una stanza di fronte troviamo il design italiano rappresentato da Gaetano Pesce, Sottsass – che fa quasi tristezza messo nell’angolo – e un’esplosione di Mendini, con i colori della poltrona Proust che paiono riverberarsi nei vasi su tre file tutt’attorno e negli specchi retrostanti…È questo il racconto del design che si può svolgere se si rimane nell’alveo delle arti decorative? Per trovare una strada differente si dovrà esplorare e cercare un altro tetto (museo della cultura materiale, museo della scienza e della tecnica, museo delle arti e dei mestieri…), oppure crearne uno ad hoc (museo del design)?Prima di passare in Olanda, segnaliamo ancora in relazione al Musée des arts décoratifs, gli Ateliers du Carrousel che, nati nel 1953, rappresentano il punto di incontro fra collezioni e formazione, organizzando corsi diversi, dalla pittura al disegno, alla modellazione della creta alla grafica, all’illustrazione. E non dimentichiamo infine l’École Camondo, che è invece una vera e propria scuola di formazione superiore, di durata quinquennale, per i settori architettura d’interni e design.Vedi la gallery:Musée des arts décoratifsE ora ad Amsterdam, allo Stedelijk che, in attesa della riapertura della sede originaria prevista per la fine del 2008 (quando sarà nuovamente visibile la collezione permanente), è ancora ospitato nell’edificio Post-CS, a pochi passi dalla stazione centrale dei treni. Tralasciando in questa sede la storia del museo e delle sue collezioni di design (una buona ricostruzione specifica si trova in Designmuseen del Welt eingelanden durch Die Neue Sammlung München / Design Museums of the World invited by Die Neue Sammlung Munich, Birkhäuser, Basel-Boston-Berlin 2004, pp. 23 ss.), quel che ci interessa segnalare è che all’interno della mostra Scènes en sporen. Vormgeving, video, fotografie en installaties / Scenes and Traces. From the Collection Design, Photography & Video (complessivamente fino al 25 novembre) il modulo dedicato al design (solo fino a metà agosto) ha scelto una soluzione allestitiva che è una variazione sul tema delle period room. Period room d’oggi (o degli ultimi 25 anni), con il vincolo del design: camera dei bambini, cucina, ufficio, salotto, sala da pranzo (se mai c’è da chiedersi se esista ancora nell’uso e nell’organizzazione domestica una tale distinzione di ambienti; ma tant’è…). Su pedane e racchiusi da un velo/zanzariera che stabilisce un filtro fisico per il visitatore, sono disposti pezzi di Grcic, Rashid, Bellini, Morrison, Jonathan Ive e il Design Team di Apple (iMac) e altri. Anche qui, insomma, niente di nuovo. E i visitatori attraversano piuttosto in fretta le stanze dedicate (di questa esposizione si può avere un’idea anche guardando il breve video online), magari per approdare subito dopo alla più interessante – almeno per noi – mostra della migliore grafica editoriale olandese del 2006, De Best Verzorgde Boeken 2006 / The Best Designed Books; interessante sia per i volumi in sé sia per lo spartano – apparentemente – allestimento, piacevolmente fruibile.Vedi le gallery:Scenes en sporen _ DesignDe Beste Verzorgde Boeken