Design 1999: il museo

lezionidesign_museoNon trovando traccia scritta di una delle Lezioni di design condotte da Ugo Gregoretti – programma Rai, autori Stefano Casciani e Anna Del Gatto, regia Maurizio Malabruzzi – dedicata al tema del Museo del design italiano e di cui rimane invece traccia video negli archivi Rai, ci siam presi la briga di darne trascrizione fedele. Ricavando da questo viaggio nel tempo non poche informazioni e interessanti suggestioni: speranze e disillusioni già provate dai fatti.[intro]Andrea Branzi: “I musei esistono se c’è un curatore, un direttore capace di farli vivere, altrimenti sono delle collezioni che non servono a nessuno.”Giulio Castelli: “Penso che questo museo debba essere il posto, il locale, il luogo dove si possa arrivare a discutere di design in una maniera problematica.”Makio Hasuike: “Non saprei se è tutto negativo la non esistenza di un museo.”Luca Scacchetti: “Non è un dramma che non esista un museo del design, va benissimo andarsi a cercare gli esempi storici su “Casabella” degli anni sessanta; non è importantissimo. È segno di un disastro.”Vittorio Fagone: “Credo che un museo del design in Italia andrebbe fatto.”Hasuike: “Veramente io non so dove mandare i miei amici per vedere le cose di design, non esiste.”Fagone: “Questo museo del design è praticamente forse fatto nelle case di molti italiani.”Castelli: “Il primo museo che ho visto di design naturalmente è stato il MoMA a New York.”Hasuike: “Ho visto il museo di Londra del design, però mi pare che già quello che è stato fatto alla Triennale qualche anno fa è nettamente superiore, a mio modo di vedere.”Branzi: “Oggi indubbiamente credo il museo del design fatto in maniera intelligente sarebbe importante averlo.”Castelli: “Bisogna fare un museo che sia vivo, che sia in movimento; un museo fermo e statico dove la gente passa e guarda i prodotti – specialmente di disegno industriale – mi sembra una cosa ormai superata.”Fagone: “Il museo del design italiano è nella vita di tutti noi, per fortuna.”Ugo Gregoretti: «In Italia, culla del design contemporaneo, non esiste un museo nazionale, centrale, pubblico del design, così come non esiste una sezione del design in alcun museo pubblico italiano di arte contemporanea. I musei di attrezzi agricoli, le raccolte di contadinerie ormai non si contano, pullulano in tutta la penisola; del design, scarse tracce. Mi si è detto che poiché la civiltà contadina è estinta è giusto custodirne le memorie prima che scompaiano. Certo. Ma allora dobbiamo aspettare che si estingua la civiltà urbana, metropolitana, industriale, postindustriale, telematica, futurologica per avere finalmente tra qualche millennio il museo italiano del design. Ma, ci si può obiettare, l’Italia è come risaputo un museo all’aria aperta, lo dicono tutti, e quindi godiamoci all’aria aperta le sedie e i tavolini del caffé, le caffettiere e le lampade, le carrozzerie delle automobili, gli oggetti eleganti esposti nelle vetrine dei negozi, i negozi stessi, disegnati dai nostri eccellenti designer. Che bisogno c’è di metterli ad ammuffire in un museo?»[sigla]UG: «Cominciamo con Paola Antonelli del MoMA di New York. Esiste un rapporto antico tra il suo museo e il design italiano…»Paola Antonelli: «Esiste un rapporto antico tra il museo e il design, antico quanto il museo, perché quando il museo è stato fondato nel 1929 il primo direttore del museo che aveva 27-28 anni a quel tempo, Alfred Barr era il suo nome, era quello che aveva deciso che tra le forme di arte moderna ci dovessero essere la fotografia e il cinema, il design e l’architettura. Il curatore a quel tempo era Philip Johnson – che adesso ha 92 anni ed è ancora pimpante, ancora dice la sua – e fin dall’inizio del museo il design ha fatto parte del catalogo dei capolavori di arte contemporanea mondiali.»UG: «Ci fu una famosa mostra nel 1930…»PA: «Beh quella è una mostra di architettura sull’International style, sull’archiettura modernista internazionale; ma il design italiano ha cominciato a entrare nel museo quando ha cominciato a sbocciare nel mondo. Perché, diciamo, negli anni trenta-quaranta il design italiano era talmente sottile… ci voleva tempo per capirlo, non era ancora veramente protagonista. Negli anni cinquanta e soprattutto con gli anni sessanta la collezione ha cominciato a ingrassarsi di design italiano, finché c’è stata una grande mostra nel 1972 che da molti storici qui presenti è considerata quasi un “canto del cigno” di una certa parte del design italiano, si chiamava Italy. The new domestic landscape, era stata organizzata da un curatore argentino Emilio Ambasz ed era una mostra splendida, in cui c’era tutto il meglio del design italiano degli anni sessanta e dell’inizio settanta.»UG: «E il MoMA ha accolto altri prototipi del design italiano, dopo?»PA: «Sì… usando la parola prototipi, abbiamo molto pochi prototipi, sono quasi tutti pezzi di produzione; ma continuamente, ogni volta che c’è un bel pezzo di design italiano o prodotto in Italia viene considerato per la collezione, quindi anche adesso, sì.»UG: «Quindi c’è speranza anche per i designer delle nuove generazioni di approdare prima o poi al MoMA?»PA: «Scherziamo? Certo! Continuamente.»UG: «Bene, grazie. Il signor Alexander van Vegesack, del Vitra Museum… lei è un collezionista che ha fatto della sua collezione il nucleo, il perno di una raccolta che poi si è sviluppata, si è arricchita…»Alexander van Vegesack: «Ho cominciato molto presto a collezionare mobili, ma all’inizio mi sono particolarmente concentrato a organizzare tutto quello che era la produzione di serie. Subito dopo mi sono immediatamente impegnato in tutte le altre fasi del processo della produzione di mobili: plastica, fibre di vetro e tutte quelle tecniche che noi oggi conosciamo. Quando la collezione ha cominciato a prendere forma io mi sono dato da fare per organizzare le prime mostre, mentre allo stesso tempo cercavo di condurre ricerche sulle fasi del processo produttivo e sul design stesso.»UG: «Lei è anche direttore del museo?»AvV: «Sì, è stata una mia idea fondare il museo e sono quindi responsabile del programma e dell’organizzazione intera del museo.»UG: «La signora Cathy Leff, direttrice del Wolfsonian – ho detto più o meno… così e così… – Museum di Miami, con una attenzione, mi pare di avere capito, particolare alla produzione italiana.»Cathy Leff: «La fondazione Wolfsonian è stata fondata da Mitchell Wolfson Jr.»UG: «… magnate diciamo così…»CL: «… è molto interessante perché ha trascorso parte della sua vita in Italia, sviluppando la carriera diplomatica. Ha cominciato con dei semplicissimi materiali, ha cominciato con gli inizi della produzione industriale e la nostra collezione raggiunge ora il 1945, quindi una parte molto significativa di questa collezione ha una origine italiana.»UG: «Benissimo, grazie. Adesso il primo ospite cosiddetto “su nastro”, l’achitetto e designer Luca Scacchetti.»Luca Scacchetti [testimonianza video]: «Maniacale… mi piacerebbe molto che il museo del design avesse un aspetto maniacale… che riuscisse – non so con quali sistemi, ma l’informatica in questo aiuta molto – proprio a contenere tutto il design fatto, non solo quello di adesso. C’è un bellissimo racconto su un cartografo, di Borges, e racconta come questo cartografo facesse questa carta della Spagna ma sempre a una scala maggiore, ma sempre insoddisfatto dell’imprecisione a contenere tutte le notizie che in realtà in Spagna ci sono. Fin quando alla fine della sua vita riuscirà a disegnare una carta che sovrapponendola alla Spagna corrispondeva esattamente. Cioè aveva disegnato una carta che era grande quanto la Spagna. Così mi piacerebbe che fosse il museo del design.»UG: «Giovanni Pinna, presidente del comitato italiano dell’International Council of Museums. I musei internazionali accolgono, pare di capire, maggiormente la cosiddetta “cultura materiale” e il design rispetto a quelli italiani. È così?»Giovanni Pinna: «Sì questo è abbastanza evidente. Probabilmente deriva dal fatto che gli italiani non sanno riconoscere il valore di quello che fanno. In realtà la comunità deve spingere per la creazione dei musei; i musei si creano di solito dal basso per interesse della società o di elementi della società che collezionano oggetti che testimoniano la loro storia, la loro origine, la loro cultura… Qui quello che sembra è che non ci sia questa spinta a costruire… e questa è una cosa strana per una città come Milano che ha una vocazione in questo campo, e sembra che non riconosca queste sue vocazioni.»UG: «Eh questo sembra un argomento delicato… Comunque vediamo che cosa succede a Milano.»[immagini della mostra Museo del Design – Collezione Permanente del design italiano 1945-1990 della Triennale di Milano]UG: «Ecco oggi questo che era, che è stato per un breve tempo il museo del design della Triennale di Milano non sta più alla Triennale. Non è scomparso, non è che si siano polverizzati questi reperti. Sono stati traslocati e non più, perlomeno, non tanto facilmente accessibili al visitatore medio; se tra i visitatori medi possiamo includerci anche noi come inviati della televisione, in realtà non ci è stato consentito, non è stato consentito al regista con i suoi operatori di filmare questi oggetti, questi mobili, che oggi si trovano al Politecnico. Ecco ora sentiamo l’architetto Giampiero Bosoni, responsabile scientifico della collezione permanente del museo del design della Triennale di Milano. Ecco, ci parli un po’ di queste tormentate vicende e anche del destino futuro della Triennale e della sua collezione.»Giampiero Bosoni: «Sono contento che si siano accennati, nei passaggi anche precedenti, come per esempio nell’intervento di Makio Hasuike – il designer che ha parlato all’inizio della trasmissione – e anche di Andrea Branzi, al fatto che questa collezione esiste e ha potenzialmente delle grandi caratteristiche che a Milano mancano, per quanto ne parlavamo prima con il nostro punto di riferimento, faro storico della critica e della storia del disegno industriale, Gillo Dorfles, da più di quarant’anni, quasi cinquanta, da quando Adriano Olivetti si è fatto portavoce, grande sostenitore della cultura del design italiano, occorresse pensare a un luogo dove poter portare in esposizione, mantenere la cultura storica del design italiano. Mi fa piacere che Makio Hasuike abbia accennato che poi oggi quella collezione storica che la Triennale ha potuto tenere in esposizione per un anno e mezzo – tutto sommato la più lunga esposizione che la Triennale abbia avuto dal 1933 a oggi, quindi è stato comunque un importante contributo – sia rispetto a quella londinese, per esempio secondo Hasuike, comunque un grande patrimonio. Io vi posso parlare molto bene della storia, di come è nata questa collezione, e dirvi quello che a me risulta del suo futuro, perché sicuramente ne ha di futuro. Vorrei dirvi che questa collezione è molto ben esposta, o comunque correttamente esposta su 1600 mq presso la sede, nella sede, potremmo dire, della facoltà nuova di disegno industriale del Politecnico di Milano; e questo fatto, almeno di principio, lo trovo molto buono. Purtroppo è poco visitabile, mi dispiace molto che non lo sia stato per il regista di questa trasmissione. Sta di fatto che quella collezione, che rimane un contributo importante di livello internazionale, esiste e sta crescendo, perché da come era stata tenuta in esposizione presso la Triennale oggi dispone anche di un preziosissimo, nuovo contributo che è la famosa collezione dei modelli storici di Giovanni Sacchi che con accordi avvenuti recentemente è stata in effetti comperata dalla Regione di Milano [sic] e data in deposito – come ulteriore contributo storico – alla collezione storica della Triennale.»UG: «Quindi è importante che Milano si dia questo museo.»GB: «Io direi che c’è una cosa di cui parlavamo, e io ho scritto di questo anche sulle riviste di settore, visto che sono stato uno di quelli che ha forzato certe resistenze perché comunque si potesse portare in esposizione questo patrimonio storico. Dire che questa a oggi in questo momento è una grande potenzialità, è vero quello che dice Branzi che un museo non è solo una collezione, ma io credo per un museo occorre una collezione, che comunque è un elemento forte e importante di questo grande organismo che indubbiamente la Triennale sola non poteva e non è riuscita a sostenere.»UG: «Comunque datevi da fare perché alcuni segni fanno intendere che Roma “ladrona” sia in agguato. È vero Anna Del Gatto, autrice e curatrice del programma che introduce ora l’agguato romano…»Anna Del Gatto: «Sì, Ugo, senti io vorrei interrompere un momento per dire che nel pubblico è arrivato ora Giovanni Sacchi, che era stato citato adesso da Bosoni e quindi volevo fargli un omaggio perché è una persona grande per tutti noi…»[applauso]Giovanni Sacchi: «Potrei dire che sono il museo del design. Io son nato costruendo modelli per fonderie. Poi l’incontro causale [sic] con Nizzoli negli anni cinquanta mi ha portato a trasformarmi nel designer. Posso dire che da me sono passati tutti i designer italiani, specialmente i milanesi – vedo delle facce note che hanno studiato con Nizzoli. Abbiamo creato tanti modelli, abbiamo fatto tanti lavori, abbiamo disperso un patrimonio di lavoro… perché? Non c’è mai stata una raccolta di questo. Cinquant’anni che predico questo museo… non un museo perché è un museo… Nel conservare questo fattore di lavoro che hanno fatto questi designer italiani, che hanno sviluppato nel mondo intiero la loro intelligenza… non si può nascondere: la moda ha fatto il suo passo, ma il design ha fatto di più della moda, perché l’industria italiana con il designer si è evoluta in tutti i campi e fa fede ancora oggi il nostro designer. Vediamo ancora i nostri designer richiesti. Guardate che oggi da me c’erano 40 finlandesi. Perché vengono da me? Perché manca l’incontro scuola e lavoro… Domani io vado in Svizzera, perché mi hanno invitato; e perché questo invito come persona unica? Perché il design italiano è stato lì, messo da parte, non lo abbiamo mai sviluppato per quello che era, per quello che è. E tuttora il designer italiano è alla testa del lavoro italiano. Non c’è un prodotto che non sia disegnato da un designer italiano. E questa è una evoluzione che bisogna conservarla, anche con il museo, partendo naturalmente dai prototipi, dallo studio del lavoro che fa il designer… non è che disegna perfettamente e basta: il designer costruisce man mano che il lavoro nasce; il modello nasce in base all’idea del designer.»UG: «Bene, sentiamo Sandra Pinto, direttrice della Galleria nazionale di arte moderna di Valle Giulia a Roma.»Sandra Pinto [testimonianza video]: «Il progetto vincitore è un progetto che ha perfettamente inteso lo spirito; è un progetto di ingegneria istituzionale altrettanto difficile quanto il tema architettonico. Si tratta infatti adesso di passare da un’idea generale a un’idea di dettaglio e molto precisata su un qualcosa che non è un museo e non è una università ma è un grande centro di produzione della cultura contemporanea, in cui il momento della creazione, il momento dell’informazione, il momento dello scambio interattivo tra l’arte, la società e la cultura si cristallizza il minuto successivo in una forma di memoria e di museo. Certamente è importante che ci si possa confrontare su tutto poi il vasto patrimonio di fatti che interessano la cultura contemporanea. Il centro lo farà con un polo importante per la ricerca e anche per la ricerca avanzata, come pure con gli strumenti da portare a immediata disposizione del pubblico. Sia il progetto architettonico sia il progetto istituzionale lavora su un concetto di navigazione, come se fossimo in una sorta di internet ma in uno spazio reale non in uno spazio virtuale. Le domande da porsi interrelatamente fra una forma artistica e l’altra, fra una disciplina e l’altra, fra un medium e l’altro dovrebbero avvenire nello spazio grande ma non grandissimo di 27.000 mq.»UG: «Il professor Gillo Dorfles, diciamo l’ornamento maggiore di questo incontro di oggi…»Gillo Dorfles: «Non esageriamo, non esageriamo soprattutto…»UG: «No, no, come non esageriamo… Penso siamo tutti d’accordo. Questo mito del design milanese ha ragione di continuare, come dire, nel suo rigoglio?»GD: «Sì per una volta una fama non è usurpata. Bisogna riconoscere che Milano ha avuto la straordinaria fortuna, più che abilità, di inventare il design quando ancora in Italia non si sapeva che cosa fosse. In un certo senso Milano ha fatto il design e solo dopo cinque o sei anni si è accorta che si trattava di design. Molti industriali milanesi avevano degli studi, ricorrevano a professionisti, soprattutto architetti, e non sapevano neanche che la parola “design” volesse dire quello che oggi sappiamo voglia dire. Difatti per molto tempo si è discusso: bisogna dire “disegno industriale” o bisogna dire “design”? Ma a parte questo, non c’è dubbio che Milano da cinquant’anni a questa parte è la capitale del design, è quella che ha dato maggiore apporto, maggiori scoperte formali in questo campo. E difatti anche all’estero quasi tutti riconoscono a Milano questa caratteristica.»UG: «Qual è la peculiarità naturale che consente al design milanese di essere così universale?»GD: «Io credo che è dovuta all’incontro di una sufficiente attenzione alla funzione, alla funzionalità degli oggetti, come del resto anche i giapponesi, gli americani, i tedeschi sanno fare, e una inventiva che è particolare del designer italiano. Quindi questo incontro delle due cose, che a volte ha dato origine anche a degli scontri sanguinosi, ha fatto sì che sono venuti alla luce degli oggetti del tutto particolare che non avrebbero mai potuto avere natali in Germania, o America e neppure in Inghilterra.»UG: «Quindi il design milanese affonda le radici nella grande tradizione italiana…»GD: «… in fondo gli italiani di oggi, che non sono più i grandi pittori del Rinascimento, che non sono più i grandi architetti barocchi, che non sono più i grandi artisti di un millennio, nel campo del design hanno ritrovato le radici che pareva avessero perduto.»UG: «E quindi questo museo del design?»GD: «Eh, qui il problema, perché bisogna intendersi prima di tutto su che cosa è o dovrebbe essere il museo del design. Perché non basta mettere un migliaio di oggetti uno accanto all’altro – cosa che per conto mio è sbagliata – bisogna trovare il modo che il museo del design abbia i prototipi fondamentali ma abbia anche i progetti, abbia anche i disegni esecutivi, abbia anche tutto quell’insieme di materia preparatoria al design che è fondamentale. Per questo prima di dire “museo di design” bisognerebbe decidere come sarà o sarebbe questo design: come il Victoria&Albert Museum o come la raccolta archivio di Quintavalle a Parma? Sono due poli che possono confluire in un museo del design.»UG: «O come il museo di Groningen in Olanda, del quale ora vedremo le immagini e poi così a sorpresa vi diremo chi è e dove sta l’autore.»[immagini del museo di Groningen]UG: «L’autore di questo mitico museo del quale abbiamo assaporato una specie di videoclip è qui seduto accanto a me ed è l’architetto Alessandro Mendini, diciamo, la cui fama è talmente vasta e salda, che è superfluo che io la riconfermi. Ecco, architetto, come è stata l’esperienza della costruzione di questo museo? Lei ha avuto anzitutto un committente nella persona del suo direttore, il soprintendente, il signore [Frans] Haks, con il quale ha in qualche modo concertato l’impostazione…»Alessandro Mendini: «Sì esatto. L’avventura bellissima – il museo adesso ha cinque anni – è cominciata quando questo signor Haks ha suonato il campanello del mio studio e mi ha chiesto di progettargli il museo della città di Groningen, che è un museo che va dalla archeologia a una pinacoteca, a dei padiglioni fino all’arte contemporanea. Appunto perché diviso in padiglioni specializzati è una specie di somma di piccoli musei che danno luogo a un macromuseo, a una sintesi. Sulla base di questa situazione anche proprio urbanistica abbiamo deciso di invitare alcuni architetti ospiti, per cui l’architettura è una somma di architetture contemporanee di diversa caratteristica linguistica e pertanto lo stesso museo si presenta in maniera “automuseale”… come potrei dire…»UG: «Lei è stato l’architetto padre…»AM: «Sono il coordinatore generale di tutta questa cosa complessa.»UG: «… che ha ricostituito intorno a questa impresa quello che ‘è il suo habitat naturale di lavoro, che è l’atelier.»AM: «Sì, io sono abituato e mi interessa anche molto lavorare con persone diverse, nel senso che abbiano la testa anche molto diversa dalla mia, e pertanto i miei lavori in genere sono dei patchwork…»UG: «… però lei ha detto “purché imparino l’alfabeto” cioè l’alfabeto di Mendini…»AM: «Beh sì, c’è di mezzo evidentemente una specie di necessità di sintesi per arrivare a un obiettivo che rimane però sempre un po’ aperto perché non si ha mai l’ultima parola nel momento in cui lavorano creativamente anche gli altri.»UG: «Ed è stato edificato su un’isola artificiale al centro di un canale altrettanto artificiale.»AM: «Sì, come succede in Olanda, questo museo è nell’acqua, è un’isola fra due ponti dei quali uno levatoio perché tanto passano le navi; si stanno progettando probabilmente anche dei padiglioni a zattera che possono arrivare anche magari a Amsterdam o più lontano…»UG: «Le piacerebbe costruire il museo del design di Milano?»AM: «No. Io mi sono occupato del museo… di musei di design a Milano, penso, per trent’anni: ogni anno ne saltava fuori uno; ho cominciato con Gio Ponti e con Roberto Olivetti, e con Dorfles anche, e progressivamente mi sono assolutamente defaticato e non mi interessa sentire parlare di museo di design a Milano.»UG: «Mentre invece altrove sì?»AM: «Dove c’è qualche speranza, perché qui la speranza, secondo me, nonostante quello che dice Bosoni non c’è.»UG: «Ho capito. Sentiamo adesso un’altra rapida testimonianza di un ospite “riprodotto”, Vittorio Fagone, critico d’arte e direttore della galleria, della Pinacoteca dell’Accademia Carrara di Bergamo.»Vittorio Fagone [testimonianza video]: «Quando nel 1995 ho potuto dedicare una mostra a Gianni e Joe Colombo, lo sconcerto di alcuni visitatori che, abituati a visitare uno spazio museale vi trovavano esposti degli oggetti, e qualcuno diceva “Mah, il museo è diventato la Rinascente”, questo dato di contemporaneità, a mio giudizio, contemporaneità in cui si trovano il fruitore e il progettista, è il dato più affascinante dell’universo del design.»UG: «Stefano Casciani, giornalista, esperto di design e architetto coautore del nostro programma. Come mai gli architetti italiani costruiscono musei all’estero e i nostri musei vengono progettati dagli stranieri, per esempio l’architetta [sic] Aziz [sic] [2xsic=sigh] che ha vinto il concorso per il nuovo centro di arte contemporanea romano.»Stefano Casciani: «Questa che tu sollevi è una polemica ormai di livello internazionale. Ho scovato l’altro giorno su internet una notizia deliziosa a proposito delle polemiche che stanno sorgendo negli stati uniti a Chicago perché Renzo Piano ha vinto un concorso internazionale per l’estensione dell’Art Institute di Chicago, che è uno dei musei più belli degli Stati Uniti. Negli stessi giorni iniziava anche a serpeggiare una polemica anche piuttosto pesante fatta da alcuni baroni dell’architettura italiana contro Zaha Hadid che ha avuto il coraggio di vincere il concorso per il centro internazionale delle arti contemporanee di Roma. Io credo che di fronte al fenomeno della globalizzazione tutte queste polemiche siano piuttosto ridicole e vogliano soltanto cercare di mantenere un impossibile equilibrio geografico culturale. Quindi mi sembra che il problema del museo ritorni comunque sulla centralità del problema dell’oggetto. Studiando questo problema per questa mostra con la galleria nazionale delle arti moderne di Roma, il dato interessante è proprio quello del ritorno del pubblico all’interesse verso l’oggetto. Paola Antonelli ha organizzato per il Museum of Modern Art di New York una mostra di Achille Castiglioni che ha avuto 100mila visitatori. Con Alessandro Mendini abbiamo realizzato una mostra al Louisiana Museum di Copenaghen sul design italiano e sul design europeo che ha avuto 106mila visitatori in tre mesi. Questi mi sembrano dati comunque positivi e interessanti, è forse su questo che ci dobbiamo concentrare per capire l’attualità e centralità dello specifico degli oggetti nei musei.»UG: «Franco Origoni, graphic designer, anche lei è d’accordo sulla necessità che si istituisca un msueo del design.»Franco Origoni: «Per fare il museo del design secondo me bisogna ricordarsi di un pezzettino che c’è in Nuovo cinema Paradiso di Tornatore, dove al ragazzo che ha nostalgia della Sicilia gli si dice “non ti voltare mai e vai avanti”. Cioè se vogliamo fare un museo del design in Italia è chiaro dobbiamo dimenticarci delle logiche che si intrecciano e che hanno impedito al museo di vivere. Ci sono le collezioni di design ormai diffuse; se citiamo oltre alle collezioni particolari dell’Alessi, c’è l’Alfa Romeo, c’è la Fiat, c’è la Caproni, ci sono una quantità di aziende che prima che fosse fatta la legge e dopo hanno messo insieme le loro collezioni… per cui quello che manca è un motore che ragioni sulla natura del design, sul ruolo del design e su che cosa è il design oggi. Non è un luogo fisico, il luogo fisico c’è e se ne trova… c’è una collezione straordinaria che va rivalutata.»UG: «E le cause che fino a oggi hanno impedito la realizzazione di questo…»FO: «Beh la concezione innanzi tutto del museo ottocentesco. Non voglio fare adesso una disquisizione filosofica su questa cosa però se si pensa che i musei di design sono una sequenza di oggetti esposti in maniera stabile in una teca fantastica, illuminati con una illuminazione bellissima, questo è un museo che è morto già dall’inizio. Il museo è un pezzo di serie, e non è comunque anche quando è un segno molto forte un pezzo unico come può essere un Piero della Francesca. Il rapporto nei musei d’arte – credo che Paola Antonelli ne sappia più di me – fra la parte di collezione e la parte esposta in maniera permanente si calcola nella progettazione dei musei nel rapporto di uno a cinque, cioè se ci sono mille metri quadri di esposizione ce ne sono cinquemila di organizzazione per fare funzionare il museo. Ci sono equipe che fanno funzionare il museo, che fanno ruotare le mostre sulla stessa collezione… Forse a questo bisognerebbe pensare, non alle polemiche che inseguiamo tutti i giorni.»UG: «Bene. Chiudiamo con un’ultima testimonianza registrata. Giulio Castelli, imprenditore: il museo del design che vorrebbe.»Giulio Castelli: «È molto più interessante avere un museo virtuale. L’ideale sarebbe avere davanti un bel visore, vedere tutti i prodotti, schiacciando, facendo girare il mouse, vedere la storia del design, di un designer, e dei disegni tecnici di questo prodotto, e poi schiacciando un bottone che questo prodotto possa venire davanti per poterlo guardare realmente. Ecco questo sarebbe secondo me l’ideale. Forse con i mezzi futuri, visto che si fanno i magazzini che schiacciando i bottoni si fanno le spedizioni, perché non si deve poter avere un magazzino dove schiacciando un bottone ci sia un nastro, un tapis roulant che porti questo pezzo davanti allo studente o al ricercatore o allo studioso.»

L’importante è arrivare primi
Museo del design industriale di Calenzano

museo-calenzanoNon potevamo non parlarne. Il primo museo del design italiano. Milano? No, Calenzano, in provincia di Firenze. Le vicende non sono nuove, ormai risalgono al 4 maggio 2006, quando dalla collaborazione fra il corso di laurea in Disegno industriale della Facoltà di architettura di Firenze, il comune di Calenzano e la Fondazione Anna Querci è nato il Museo del design industriale. Un parto strano, a nostro parere; e già il nome di battesimo – nell’insensatezza dell’espressione anglo-italiana – desta perplessità. Ma non attardiamoci in questioni nominalistiche (anche perché, invero, ci sarebbe fin troppo da dire), guardiamo la sostanza.In sostanza, anticipiamo che sono variegate e anche contraddittorie le informazioni che si ricavano dal sito web della Fondazione; ma procediamo con ordine.«L’idea della Fondazione non è un caso [perché mai dovrebbe essere un caso?]. È venuta piano piano considerando che l’Italia, patria della creatività e del design, non aveva ancora un Museo del Design Industriale [meglio, perché all’Italia, se mai, serve un museo del disegno industriale]. Molte città, fra cui Milano, ne parlano da anni ma ancora nessuno si è fatto avanti ad aprirne le porte.»Per questo, come apprendiamo dalle dichiarazioni di Anna Querci – nel video realizzato da Florence Tv, da cui è anche possibile prendere visione dell’allestimento («curato dall’architetto Lorenzo Querci, docente presso il corso di laurea in Disegno industriale, in collaborazione con alcuni studenti dello stesso») – «siamo arrivati per primi perché le altre città ne stanno parlando da tanti anni ma per ora non hanno ancora aperto alcun museo». Insomma il primato prima di tutto, questo sembra essere il progetto principe del museo.Ma in che cosa consiste codesto museo? Quale il posseduto, quali i criteri di raccolta, archiviazione, catalogazione e, infine di esposizione?Si tratta di cento pezzi selezionati ed esibiti in occasione della mostra Italian Beauty: 100 esemplari al top. Trasformazioni nel design moderno (Firenze, 14 ottobre-2 novembre, 2005; Calenzano, 11 novembre-8 dicembre 2005). Riepiloghiamo quel che scrive Anna Querci su questi oggetti e sul progetto nel testo che può essere letto integralmente dal sito della Fondazione.Insomma viene detto che la collezione:- comprende il design italiano dal 1960 a oggi, con cento pezzi e più;- è una «libera scelta»;- è una «collezione personale e particolare».Inoltre, come organizzazione e obiettivi:- «non vuole essere solo una raccolta di pezzi belli e significativi» (eppure è una collezione personale e particolare…);- è strutturata «per decadi e/o per ideologie [?]»;- è un «excursus tipologico [?] del modo di vivere moderno»;- rappresenta «un gusto e un genere [sic] […] sempre all’avanguardia, sempre alla ricerca dell’estetica, della funzionalità e del rigore nelle linee e nelle forme»;- testimonia «l’evolversi dei materiali, dello stile, delle mode nel design»;- testimonia «la creatività e l’evoluzione di un gusto sempre attuale, al di là delle mode temporanee» (eppure vuole testimoniare mode e stili…);- sottolinea «lo sviluppo e il collegamento strutturale, formale e tecnologico dei temi fondamentali sia della progettazione che della produzione industriale italiana»;- è una panoramica «delle caratteristiche creative e tecniche che hanno reso celebre in tutto il mondo la produzione industriale italiana».A questo punto, prima di procedere, devo fare una confessione: non ho visitato personalmente il museo in questione, di cui però il servizio di Florence Tv rende bene l’idea; e del resto non escludo che lo farò. Ciò detto, se pure con alcuni limiti – forse qualcosa è mutato dall’inaugurazione –, ci pare di poter comunque fare qualche considerazione.Dunque, da quanto si legge, l’impressione che si ricava è che la libertà di cui si dice («libera scelta») stia invece per “arbitrio”. E non perché gli obiettivi indicati – testimoniare l’evoluzione di gusto e stili, gli sviluppi tecnici e tecnologici – non siano anche condivisibili, ma perché non ci pare che il museo come realizzato e allestito li rispecchi. Cento (e più) singoli oggetti, semplicemente collocati su banchi o piedistalli grigi con una targhetta-didascalia, basterebbero al pubblico fruitore per avere una lettura, interpretazione e cognizione degli sviluppi di oltre quarant’anni di società, tecnologia, moda, industria e, naturalmente, design? Ci riesce difficile crederlo, a meno che uno non abbia già da altre fonti una tale conoscenza.E ancora, potremmo (ma non vogliamo!) pure tacere del commentatore del servizio di Florence Tv che – pur sempre ispirato, certamente, dai curatori dell’evento – dichiara che il museo «rappresenta una vera e propria innovazione di modernità, anche perché va oltre la mera funzione di museo [sic!]»: trascurando anche qui il significato letterale e affidandoci allo spirito delle parole, in che cosa consiste questa innovazione museale, che poi sarebbe addirittura “oltre” le funzioni di museo? Dichiara Anna Querci che lo scopo non è «statico, nel senso di un museo fermo e fine a se stesso ma prevede una serie di attività proprio per dare l’opportunità agli studenti di approfondire i loro studi […] perché il museo dev’essere vitale, non deve essere morto». Ora, da quando in qua un museo è qualcosa di statico, fermo e fine a se stesso? D’accordo che molti musei e cosiddetti musei lo sono, ma “il museo” tale non è e non deve essere, com’è noto. Querci sottolinea inoltre, ma come se fosse una novità, che il museo deve essere vitale (forse intendeva “vivo”, in quanto contrapposto a “morto”); però molto dipende da quale tipo di vita s’intende condurre.Per completezza non possiamo tralasciare nemmeno quel che ha detto Emilio Ambasz, presente all’inaugurazione: «Questo è un museo che non solo fa custodia dei prodotti del design di valore ma essendo collegato con la scuola aiuta anche la produzione di patrimonio. Pertanto ha due funzioni quella di custodia e quella di promuovere la produzione del patrimonio. Quando ero curatore del Museo di arte moderna di New York solamente noi facevamo custodia e qui mi sembra si sia fatto un passo avanti […] come impresario o almeno come patrocinante di un’attività industriale». Che apre quanto meno qualche interrogativo su quel che accadeva a New York.E il professor Massimo Ruffilli, “presidente” del corso di laurea in Disegno industriale della Facoltà di Architettura di Firenze, ricorda che «sono pochi i musei del design anche a livello mondiale, abbiamo il MoMA di New York, abbiamo il museo di Londra, però noi qui abbiamo fatto questa iniziativa […] in concomitanza con la presenza del corso di laurea in Disegno industriale dell’ateneo fiorentino, ovvero un museo vicino al mondo della formazione dei giovani».A parte che i musei di design o con collezioni di design nel mondo sono ben di più e altri rispetto a quelli citati dal professore, che non sono nemmeno i casi più significativi, quale tipo di formazione si intende dare ai giovani esibendo oggetti, prodotti finiti come si potrebbero trovare in tanti showroom o fiere, o sicuramente in tante foto già vedute mille volte?E il nostro amico cronista del servizio tv sottolinea come gli oggetti siano presentati in un «mix che annulla completamente le distanze temporali di questo lungo lasso di tempo»; ci pare che abbia ragione, solo che non è una bella cosa come lui crede.Del resto forse l’ansia di stabilire primati fa pure dimenticare una discreta storia anche italiana, quella delle scuole d’arti applicate, industriali, sorte in varie nazioni dopo la metà dell’Ottocento, spesso in relazione con collezioni e musei di arti applicate, istituiti proprio con fini educativi, formativi e di promozione della produzione. Di questi temi, in relazione alla tematica dei musei d’impresa, si è occupata e si occupa per esempio Fiorella Bulegato, in particolare nella sua tesi di dottorato Dai musei delle arti industriali ai musei d’impresa. Un servizio alla cultura del progetto (Dip.to Itaca, Università La Sapienza, Roma, 2006).Dulcis in fundo, quasi ce ne dimenticavamo. A margine di tutte le affermazioni su come il Museo di Calenzano dovrebbe testimoniare evoluzione di tecnologia, società, industria, stile, senza cedere però alle mode e al già visto, sta il fatto che la collezione e il progetto espositivo da cui nasce si chiama Italian Beauty: 100 esemplari al top. Quindi una questione estetica. E anche il nostro amico commentatore, nel servizio tv, parla dei pezzi esposti come di «bellezze più o meno tecnologiche».Da quel che leggiamo e vediamo a proposito del Museo del design industriale, ci pare di poter concludere che: c’è un fraintendimento di base su cosa siano i musei; sembra esserci uno scollamento fra dichiarazioni velleitarie e reale consistenza e pregnanza del progetto (se c’è un progetto). Non crediamo che questo sia o possa essere ritenuto quel che dice di essere (andremo sicuramente a verificare, comunque).Avanti un altro.

La Triennale di Milano. Museo mediatico?

triennale_miniAbbiamo voluto verificare la validità di una considerazione in cui ci siamo imbattuti nella lettura del già molto citato Tre idee di museo. Scrive infatti Giovanni Pinna, Una storia recente dei musei, ivi, p. 14 a proposito del museo mediatico «la cui finalità sovrana è quella di promuovere chi lo costruisce […] inversione dei valori che da sempre hanno sovrinteso alla nascita e all’attività dei musei […] il moderno museo mediatico prende l’avvio dalla costruzione dell’edificio, indipendentemente da quali oggetti vi verranno conservati […]».Prendiamo il caso del nascituro Museo del design della Triennale di Milano. Ormai lo abbiamo imparato a memoria dai vari comunicati o dal programma della regione: «Il museo del Design a Milano esisteva già, ma era invisibile in quanto non contenuto in un classico involucro architettonico». E d’accordo che la visibilità – come possibilità di vedere – è componente esiziale per ogni struttura museale… purché non diventi unica, come appunto nel museo che definisce “mediatico”.Se allora consultiamo l’amico G. O’Ogle, digitando “museo del design Triennale”, dai risultati scopriamo che se è vero che i canali ufficiali (rimbalzati da un portale all’altro) lascerebbero l’immagine di un museo, appunto, mediatico, tuttavia internet – e questo è uno dei suoi massimi pregi – consentendo di recuperare, attraverso le domande giuste, i materiali più diversi e non solo quelli della comunicazione ufficiale, amplia non poco il panorama, lasciando spazio alle riflessioni personali; seguiamo alcuni dei link trovati:http://www.lombardiacultura.it/accordi_di_programma.cfm?ida=176 è il già citato programma di accordo, che parla di «uno spazio di nuova concezione progettato e realizzato per valorizzare il design italiano, dando la massima visibilità a tutti i protagonisti della filiera produttiva, dai progettisti ai produttori, in un luogo caratterizzato da un’atmosfera fortemente interattiva e di grande coinvolgimento emotivo»; insomma espressioni vaghe e accattivanti, come si conviene. Ma troviamo anche detto che nel progetto rientra l’avvio della «fase di start up [perché solo questa fase non è chiaro…] della rete fisica e virtuale, che metta in comunicazione tra loro e con il Museo del Design tutti i giacimenti di beni culturali afferenti il design (archivi e musei d’impresa, giacimenti del design italiano, ecc.) presenti sul territorio regionale», e di questa parte del programma ci piacerebbe sapere di più; inoltre è aggiunto che s’intende «porre il Museo del Design al centro di un “sistema museale”, che colleghi le varie realtà presenti sul territorio regionale e italiano o in corso di realizzazione (in particolare il grande museo del design di c.a 12.000 mq che Citylife realizzerà entro il 2014 e che costituirà il naturale proseguimento e sviluppo di quello all’interno del Palazzo della Triennale»; non essendo questa pagina web aggiornata e facendo riferimento al progetto originale, ovviamente non tiene conto del fatto che il progetto per il Museo del design alla Fiera, con progetto di Libeskind, è caduto, e che anziché risparmiare l’investimento, si è deciso di realizzare allora un Museo d’arte contemporanea – scelta contro cui si mosso l’assessore Vittorio Sgarbi, ma non solo (per una aggiornata rassegna di documenti, proteste, articoli ecc. si veda il sito di Vivi e progetta un’altra Milano, in particolare le pagine dedicate alle notizie e alle iniziative contro il progetto Fiera, ovvero per la sua revisione «in modo da garantire che la trasformazione di una intera parte di città non sia determinata soltanto dall’interesse commerciale dell’imprenditore ma tenga effettivamente conto del punto di vista della popolazione», come si legge nella lettera aperta al sindaco Moratti, del settembre 2006);http://www.triennale.it/index.php?id=1&tbl=3 è la pagina del sito web della Triennale dedicata alla Collezione permanente del design italiano, dove poco o, meglio, nulla si dice su criteri museologici, archivistici, catalografici ed espositivi; vien detto che «la filosofia che anima la Collezione punta a incrementare gli oggetti disponibili attraverso la creazione di una rete che mette in connessione e valorizzi i vari “giacimenti” presenti sul territorio», infine si annota che «attualmente la Collezione è conservata negli archivi della Triennale, in attesa dell’apertura del Museo del design». Sia detto, non è che riteniamo che la presenza online e l’informazione in rete sostituiscano o valgano tout court come fonte per la realtà dell’ente; ma è questione di trasparenza e di volontà, giacché le informazioni che vengono comunicate e diffuse online o in altra forma – uffici stampa – non possono che riflettere gli intenti e gli obiettivi primari di chi sta alle spalle dei progetti, e lasciano immaginare un certo tipo di museo e di struttura, in cui quel che avviene in fase di selezione, conservazione, catalogazione, archiviazione, documentazione ecc. rimane misterioso, degno di un’indagine, se non, peggio, irrilevante;http://www2.unicatt.it/pls/unicatt/mag_gestion_cattnews.vedi_notizia?id_cattnewsT=7342 Maria Elena Scandaliato propone quel che ci aspetteremmo, magari in altra forma, dal sito istituzionale della Triennale, cioè una circostanziata ricognizione delle tappe che hanno condotto all’avvio del progetto – a partire dal lavoro condotto dalla curatrice della Collezione permanente Silvana Annichiarico, dal 1992 –, offrendo un panorama, uno spaccato, delle problematiche che la costituzione di un museo come quello del design comporta, non solo burocratiche, tecniche ed economiche («I cinque milioni e mezzo di euro promessi da Urbani, infatti, sono diventati prima tre e mezzo – fine 2004 – per poi asciugarsi sulla cifra di 2.911.000 euro […] “Oltre a questo problema, ci sono state mille lungaggini tecniche”») ma pure anche umane e umanissime: «A parte il nucleo di pezzi in possesso della Triennale, il patrimonio del design italiano si concentra infatti nei piccoli e numerosi musei già esistenti […] o nei musei aziendali […] sparsi sul territorio a macchia di leopardo. Gli enti proprietari di tutti questi giacimenti non sono mai stati allettati dall’idea di cedere il loro materiale alla Triennale, soprattutto laddove la fondazione milanese volesse gestire l’organizzazione del museo e degli oggetti esposti in totale autonomia, forte del proprio nome e delle proprie prerogative»; con le parole dell’assessore regionale della Lombardia alla cultura: «Quando si è detto che il patrimonio sarebbe rimasto sparso sul territorio e che si sarebbe costituita la rete con il nucleo in Triennale, allora si è davvero sbloccato tutto», insomma «un museo a rotazione» con «un nucleo permanente nella sede stessa della Triennale, e che si aprisse alla partecipazione degli altri enti sia attraverso una rete “virtuale” di collegamento, sia attraverso esposizioni tematiche a rotazione, in modo che ognuno rimanesse proprietario del proprio materiale»;http://www.artdreamguide.com/adg/_news/_2006/mudesi.htm ci informa che il «progetto è stato affidato all’architetto Michele De Lucchi, che è riuscito a ricavare una superficie di 2.000 mq. e ha ideato, in collaborazione con Renzo Piano, un ingresso davvero originale: un ponte sospeso sopra lo scalone»;http://impresa-stato.mi.camcom.it/im_32/112-122.htm l’articolo di Pierantonio Bertè, Alla Triennale le basi per un “Museo del design”, in “Impresa&Stato”, rivista della Camera di Commercio di Milano, emerge come un sogno, con un taglio che pone in luce intenti e difficoltà della effettiva strutturazione della collezione del design in vista del museo; scrive l’autore dell’articolo, che sembra ben informato sui progetti della Triennale: «“Museo del design” significa luogo dove la storia è percorribile attraverso le “cose”. Una storia visibile che diviene sostegno della memoria. Storia di situazioni sociali e culturali, storia di costume, di qualità della vita. L’ampio spazio di pertinenza del design è contenuto bene nella nota espressione “dal cucchiaio alla città”. […] Fedele specchio del difficile rapporto tra cultura, industria e società nel nostro Paese, il design ha saputo trasformarsi nel tempo in una economia di settore che costituisce una voce attiva nei capitoli del nostro bilancio economico. […] Un vero e proprio museo del design dovrà però essere una realtà complessa e attiva. Alla sua base deve stare il possesso di una collezione di pezzi che sia nello stesso tempo ricca ed essenziale […] La collezione incomincerà a essere attiva, quindi ad avviarsi sulla via del museo, quando sarà in grado di operare gli opportuni restauri e di adottare i più moderni metodi di conservazione. All’interno di essa, in continuo sviluppo, si realizzeranno in rotazione esposizioni organizzate alla luce di scelte tematiche o cronologiche, critiche o storiche. In questo modo la collezione fa cultura e fa museo»; a tal fine anche le mostre organizzate in vista del museo «rappresentano appunto le componenti base del Museo in quanto hanno imposto e impongono una ricognizione di pezzi acquisiti o da acquisire mediante la conoscenza della loro ubicazione e del rapporto instaurabile tra possessori e collezione. Un esperto, che prefigura la figura del futuro “curatore” del Museo, individua, con il conforto di un comitato scientifico, i pezzi da “salvare” e fornisce le motivazioni culturali della scelta». Ma questo articolo è del 1995!http://www.awn.it/AWN/Engine/RAServePG.php/P/47891AWN1000/M/26671AWN1006 da “Repubblica” del 25 maggio scorso, su curatori e allestimento: «Saranno l’architetto milanese Italo Rota e il regista inglese Peter Greenaway i primi due curatori del nuovo Museo del Design che aprirà a fine novembre alla Triennale. Il museo cambierà allestimento ogni paio d’anni, affidato di volta in volta a una coppia di architetti e registi-scenografi. Rota e Greenaway hanno già iniziato a lavorare al loro progetto, che troverà spazio al primo piano del palazzo, dove sono in dirittura d’arrivo i lavori diretti da Michele De Lucchi. Il museo avrà come consulente il designer Andrea Branzi e come coordinatrice Silvana Annichiarico»; ma stupisce un po’, pur ammirando i nomi, il ruolo di curatore dato a un regista, e invece quella che è indicata in Triennale come design curator ora “ridotta” a coordinatrice; quali progetti? quali obiettivi? chi scriverà la sceneggiatura?http://www.design-italia.it/italiano/dettaglio.htm?tipo=idee&idx=53 Sabrina Sciamariferisce di uno dei “Giovedì Adi”, novembre 2006, dedicato a Quale museo per il design, con gli interventi di Pietro Petraroia per la Regione Lombardia, Andrea Cancellato direttore generale della Triennale, Claudia Donà di Fondazione Adi e Francesca Appiani di Museo Alessi, che permettono – al di là, ovviamente del segnalare il ruolo di una regione come la Lombardia – di entrare un poco più a fondo nelle tematiche e nelle pratiche museali per il design; da leggere;http://www.lapadania.com/PadaniaOnLine/Articolo.aspx?pDesc=31124,1,1 nell’articolo che risale al 2004 – quindi in altro contesto politico sia regionale sia nazionale – il giornale leghista ai dati noti aggiunge una intervista all’assessore regionale Albertoni, che alla domanda “Come si è giunti ad avere il supporto del Ministero per i beni e le attività culturali?” risponde così: «Avevamo appreso con stupore dell’intenzione di realizzare un non meglio precisato “showroom” del design a Roma, presso l’Eur. La Capitale può avere certo molti meriti, ma non significa nulla per quanto riguarda la creatività e la capacità produttiva nel settore del design. Il Ministro ai Beni e Attività Culturali Giuliano Urbani ha però capito immediatamente la positività della proposta avanzata congiuntamente dalla Regione Lombardia e dalla Fondazione Triennale. Sostanzialmente, il Ministro Urbani ha compreso che il Museo del Design non poteva che sorgere a Milano, dove è la sua sede naturale. È soprattutto quì, al centro della Lombardia, che il design significa professionisti creativi, centri di ricerca universitari d’eccellenza e sistemi comunicativi tecnologici»; introducendo quindi un riferimento a un progetto, confuso e per certi aspetti misterioso per un museo del design a Roma. Un argomento sul quale torneremo, credo, e non per definire primati regionali, ma piuttosto per sollevare l’accento sul “made in Italy” (si parla di “Esposizione Permanente del Made in Italy e del Design Italiano”, con sede presso il Palazzo della Civiltà Italiana dell’Eur) che il progetto romano ha posto, confondendo così le acque – o dimostrando di avere le idee poco chiare – su cosa si debba in realtà intendere per “design”, disegno industriale ecc.http://www.michael-culture.org/it/editorials/design-europe approfittiamo per segnalare questa rassegna relativa alla storia delle arti applicate e decorative e del design nelle collezioni europee; su questo portale avremo modo di tornare a breve.

Definizione di museo #1

marani_pavoni“Museo” per il design? Che cosa significa, che cosa potrebbe significare, che cosa dovrebbe essere o che cosa è, già? Che cosa è un museo? Cosa sono oggi i musei? Quali definizioni e quali realtà e modelli si danno?Se una museologia – per ora diciamo così – del design non vorrà essere aliena alle vicende, alle esperienze, alla teoria e alla pratica museologica, non sarà necessario integrarsi, inserirsi in, interessarsi a dibattiti, teorie, pratiche già da altri svolti, affrontati? Non sarà necessario ripercorrere strade da altri – con competenza – battute, e trarne giovamento, sia per i successi sia per gli errori?Un utile e agevole ingresso al tema, non solo dei musei ma anche della museologia e della museografia, viene da Pietro C. Marani, Rosanna Pavoni, Musei. Trasformazioni di un’istituzione dall’età moderna al contemporaneo, Marsilio, Venezia 2006. E non perché nello specifico si parli di musei del “design” – termine, quest’ultimo, che compare poco nel libro, anzi che compare pure in un punto importante, ma non come oggetto; si veda la chiusa dell’ultimo capitolo relativo a La legislazione italiana, l’idea di beni culturali e il museo, p. 104: «In questo contesto [ovvero il panorama legislativo e l’attualità italiani, ma non solo] il contributo che la comunicazione dei beni culturali e il design dei beni culturali possono offrire è certamente fondamentale».Ebbene, trascuriamo in questo momento volutamente il “design dei beni culturali” – qualcosa che non escludiamo e su cui anzi dovremo ritornare (si tratta di valorizzazione dei beni culturali via museotecnica e museografia, exhibit, comunicazione ecc.) e ci ricorderemo allora delle attività di ricerca del Miur sul tema Me.Design (2001/03). Strategia, strumenti e operatività del disegno industriale per valorizzare e potenziare le risorse dell’area mediterranea tra locale e globale i cui esiti sono disponibili in www.sistemadesignitalia.it, e quindi dell’attività di ricerca d.Cult intrapresa da alcuni atenei italiani i cui esiti, Il design per la valorizzazione dei beni culturali, sono anch’essi disponibili in www.sistemadesignitalia.it [2006], come pure del volume, legato a simili attività, che raccoglie i risultati di esperienze e workshop Design, territorio e patrimonio culturale, a cura di Vincenzo Cristallo et al., Clean edizioni 2006), ma che non è ora primario centro del nostro interesse.Trascurando ciò – e anche la questione dei rapporti fra “beni culturali” e “museo”, data, naturalmente, la non coincidenza – ci concentriamo invece sulla definizione di “museo” e sul significato di un museo, magari del design; sulla definizione di “museologia e museografia” e, in seguito, sul significato della museologia e della museografia, magari per il design. Tenendo per assunto – ma così entriamo già nel vivo – che «se si vuole che il museo svolga la funzione di istituzione in cui la società trova un’identificazione con il proprio patrimonio culturale, ogni museo deve avere una propria cultura, una propria individualità, un proprio “senso”» e che, conseguentemente «non deve esistere perciò un modello universale di museo» (Giovanni Pinna, Il “senso” del museo, in Adalgisa Lugli, Giovanni Pinna, Virgilio Vercelloni, Tre idee di museo, Jaca Book, Milano 2005, p. 109; di questo testo abbiamo già scritto qualcosa).E assumiamo per ora anche che, come scrivono Marani e Pavoni, caratteristica del museo è la sua mutevolezza, dato che esso «muta nella forma e nella sostanza seguendo le inclinazioni della collettività che lo reclama, lo istituisce, lo gestisce, lo incensa, lo abbandona» (Marani, Pavoni, 2006, p. 10).Gioviamoci dunque della ricognizione che i due autori fanno e ripercorriamo, per iniziare, le Definizioni di museo (cap. 2, pp. 23-30) date «da Icom, da associazioni nazionali di musei, da museologi e da professionisti che si trovano a operare con i musei». Peraltro questo volume offre anche una sintetica appendice di citazioni sul tema dei musei, da Paolo a Paul, ovvero da Giovio a Valéry, passando per Bouvard e Pecuchet («… e la loro casa sembrava un museo»), immancabili. Ma per ora atteniamoci ai “professionisti”, il che ci permette di ritornare anche su alcune perplessità espresse precedentemente.Icom:(i)- 1951: con un’attenzione particolarmente rivolta al patrimonio/tutela e alla esposizione, «si dichiara che il museo è l’istituzione che conserva, studia, valorizza e essenzialmente espone un insieme di elementi di valore culturale per il diletto (nelle versioni francese e inglese – due delle lingue ufficiali insieme allo spagnolo di Icom – dello statuto sono usati i termini déléctation/enjoyment che hanno un significato diverso rispetto alle parole che nelle due lingue indicano il divertimento, confusione che purtroppo soprattutto negli ultimi anni si è venuta a creare tra coloro che si occupano a vario titolo di musei). I beni di cui il museo si fa carico sono le collezioni di oggetti artistici, storici, scientifici e tecnici, giardini botanici e zoologici, acquari»;- 1961: la definizione viene ampliata «solo per quanto riguarda la tipologia di beni che rientrano nella sfera di competenza dei musei: sono così aggiunti i monumenti storici, i siti archeologici e storici, i siti e i parchi naturali che garantiscano una visione regolamentata al pubblico»;- 1974: l’orientamento si rivolge maggiormente verso la società, alla relazione con l’uomo e le sue aspettative, per cui museo è «“un’istituzione al servizio della società, che acquisisce, conserva, comunica e presenta, con il fine di accrescere la conoscenza, la salvaguardia e lo sviluppo del patrimonio, dell’educazione e della cultura, le testimonianze della natura e dell’uomo”. Anche l’ambito dei beni viene ripensato e si arriva a stabilire che sono musei le istituzioni permanenti senza scopo di lucro, tutti i siti storici, archeologici, naturalistici che possano attestare la loro natura di museo attraverso attività di acquisizione, conservazione e comunicazione»;- 1989: «il nuovo statuto […] ribadisce che il museo è un’istituzione permanente al servizio della società e del suo sviluppo e che tale definizione deve essere applicata senza alcuna restrizione derivante dalla natura dell’autorità di tutela (per esempio non viene riconosciuta alcuna differenza tra un museo pubblico e uno privato, purché siano perseguiti gli stessi obiettivi) o dal sistema di funzionamento»;- 1995: la museologia viene citata come disciplina relativa alle attività museali, chiarendo che «sono musei le istituzioni o organizzazioni senza scopo di lucro che svolgono attività di ricerca, di formazione, di educazione, di documentazione legate ai musei e alla museologia»;- 2001, XX assemblea generale Icom, Barcellona: «Il museo è un’istituzione permanente, senza scopo di lucro, al servizio della società e del suo sviluppo, aperta al pubblico che svolge ricerche concernenti le testimonianze materiali dell’uomo e del suo ambiente, le acquisisce, le conserva, le comunica e soprattutto le espone a fini di studio, di educazione e di diletto»;- 2004, assemblea generale Icom, Seoul: la definizione viene modificata per la parte riferita alle testimonianze «materiali e immateriali dell’uomo e del suo ambiente», emancipando così il museo «dall’originaria idea di collezione per condurlo ad abbracciare il vasto territorio dei patrimoni dell’umanità che non possono essere messi sotto teca, poiché sfuggono alle classiche regole della numerazione, catalogazione, esposizione. La musica, la danza, i rituali, quelle forme cioè che d’espressione che rappresentano in maniera profonda e inequivocabile l’identità di una comunità, l’ambiente sociale e culturale, la tradizione, il multiculturalismo, il transculturalismo sono considerati patrimoni immateriali dell’umanità […] di queste manifestazioni viene catalogato e numerato solo il medium […] ma non il patrimonio culturale in sé».(i) Peraltro non sarebbe sconsigliabile che Icom Italia provvedesse a pubblicare online i materiali che rendano conto dell’evoluzione della propria storia e degli studi, delle definizioni e degli ambiti; si nota invece che il sito web, in specie quello dell’emanazione italiana, per le sezioni in fieri evidenzia un aggiornamento piuttosto rallentato, fermo al 2004-05. Si vedano per esempio la sezione dedicata alla “Rivista dei musei” o quella che segnala le “Pubblicazioni recenti”.