Il telescopio di Proust
ovvero: Marcel ritrovato

proust_bozzaQualche tempo fa, attraverso la lettura di Franco Rella, Il silenzio e le parole, Feltrinelli, Milano 2001, ci è accaduto di ritrovare un brano del Tempo ritrovato di Marcel Proust, ivi ripreso con riferimento a Walter Benjamin e particolarmente interessante per la consonanza “metodologica” che per noi evoca. Ma teniamolo in serbo un poco, e seguiamo come recentemente vi siamo tornati con gran conforto.Pochi giorni fa, attraverso la lettura del saggio di James A. Boon, Perché i musei mi mettono tristezza, in Politiche e politiche dell’allestimento museale, a cura di Ivan Karp, Steven D. Lavine, introduzione di Fredi Drugman, Clueb, Bologna 1995, ci siamo imbattuti in un’altra (non necessariamente nel senso di una alternativa escludente) lettura di Proust, che segue la citazione (ivi, p. 154) di Walter Benjamin, Parigi, la capitale del XIX secolo, in Id., Angelus Novus, Einaudi, Torino 1962, pp. 145-146, ovvero 1995, p. 151, là dove parla delle illustrazioni di Grandville (Jean-Ignace-Isidore Gérard) che, proprio nell’epoca delle esposizioni universali, rappresenta «oggetti morti» che «si depositano chiaramente nella spécialité – una qualifica o etichetta che sorge in questo periodo dell’industria di lusso; sotto la matita di Grandville la natura intera si trasforma in spécialités. Egli la presenta nello stesso spirito in cui la réclame – anche questa parola sorge in questo periodo – comincia a presentare i suoi articoli. Finisce pazzo».Ma non perdiamo di vista Proust – fra l’altro passeremo per Venezia.Scrive infatti Boon (ivi, pp. 155 ss): «Potete visitare L’Aia (deux étoiles), entrare nel museo Mauritshuis (trois étoiles) sedere con devozione davanti alla veduta di Delft di Vermeer e ascoltare i visitatori francesi recitare, come a memoria, non Proust su Vermeer ma la citazione nella Guida Michelin delle parole del Narratore della Recherche su Vermeer, che può essere la cosa giusta da recitare in questo genere di visite. Io stesso ho avuto modo di sentire più volte, intonata dai visitatori, questa appropriata didascalia, tratta da una guida non precisamente banale: “le plus beau tableau du monde”. Questo saccheggio di Proust da parte del Guide Miche è stato a sua volta saccheggiato dai visitatori, che recitano a voce alta il panegirico, senza preoccuparsi troppo dell’altro visitatore che, lì accanto, vorrebbe leggere in silenzio la Veduta di Vermeer […]. Ora, per quanto mi è stato possibile capire, origliando, questa attività non ha reso i passanti francesi a loro volta melanconici, e neppure allegri, peraltro. Ma chissà. Questi ritmi di riappropriazione resero comunque Proust, o il suo Narratore, triste, o melanconico, o incline alla musica o consapevole della necessità per la memoria di nutrirsi di strati di frammentarie leggende di residui del passato e di luoghi già frammentati e etichettati – come i musei. Proprio questo era la prosa di Proust, e dei suoi predecessori: saccheggio di saccheggio di saccheggio [ma, vorremmo aggiungere, con quale altezza e onestà!].Proust fece oggetto di saccheggio e di “pastiche” [in specie con Pastiches et mélanges] un gran numero di prosatori, compreso Ruskin, di cui addirittura tradusse Sesame and Lillies, scoprendo così una vocazione a scrivere secondo una memoria accumulativa che non si riduceva a una semplice rievocazione [per chiudere il cerchio si dovrebbe ricordare che Benjamin, per parte sua, tradusse Proust]. Tra le opere di Ruskin che Proust saccheggiò su suggerimento della madre c’erano le famose verbalizzazioni e visualizzazioni che suscitavano un vivo senso del luogo e del tempo con riferimento a quello che è forse il luogo più saccheggiato sulla terra: Venezia. […] La museificazione di Venezia a opera di Ruskin, da una parte, la salvò da un certo tipo di concezione turistica (quella che in precedenza l’aveva salvata) e, dall’altra, lanciò una nuova maniera e un nuovo stile di gustare-Venezia che nelle epoche successive l’avrebbe salvata più e più volte. E Venezia non è mai rimasta quel che era. E non si può neppure dire che la stessa Venezia (sposa del mare) non possa essere accusata di saccheggio e sfruttamento. La città cominciò a costituirsi in museo, o più precisamente in reliquiario, molti secoli prima che i viaggiatori e i voyeurs lettori di Ruskin insieme trasformassero Venezia in un composito emblema politico-estetico, con la speranza di redimere l’Europa industriale. […] Se mai una città era destinata a finir museificata – e in un certo senso tutte possono esserlo – quella fu proprio Venezia. Quando il Narratore di Proust descrive Venezia, lo fa sulla scia di una catalogazione che si vuole esaustiva come quella di Ruskin […]». E con riferimento ai ricordi involontari proustiani, scrive Boon (ivi, p. 159): «il narratore finisce col riconoscere nelle sue anticipazioni come nei suoi ricordi i mediatori dell’“esperienza”; più precisamente, ogni esperienza pura sarebbe tesa tra i poli irriducibili dell’anticipazione del ricordo, ed è proprio questa tensione che il narratore finisce col descrivere».Ora, di fronte a questo Proust saccheggiatore e accumulatore, abbiamo ripreso in mano il testo di Rella, Il silenzio e le parole, cit., p. 148, che ricorda le affinità quasi esistenziali fra Benjamin e Proust – «la malattia, il riso, il collezionismo: anche delle “reliquie della memoria”» – ma soprattutto come il primo assumesse nelle opere della maturità il modello teorico proustiano: «Nell’Opera d’arte nell’età della sua riproducibilità tecnica, la distruzione dell’aura, che è stata letta come un’adesione benjaminiana all’avanguardia tecnologica, obbedisce invece al metodo delle accelerazioni e dei rallentamenti temporali, che costituiscono il “tempo” della Recherche, il suo ritmo interno e segreto. L’immagine telescopica, attraverso cui Proust avvicinava le cose è esattamente la distruzione della lontananza che protegge gli oggetti e le immagini nel culto, teorizzata da Benjamin nell’Opera d’arte. Comune ad entrambi è anche l’impegno di decifrazione dei frammenti in cui si decompongono le immagini desacralizzate, per giungere attraverso la loro interpretazione, a costruire una diversa immagine del tempo, un diverso senso, che viene raggiunto proprio al prezzo di una profanazione, di un vero e proprio attraversamento dell’abisso infernale in cui le cose sembrano mostrarsi solo come mostruosa materialità».E in nota Rella cita il brano di Proust, Alla ricerca del tempo perduto, VII: Il tempo ritrovato, trad. it. di G. Caproni, Einaudi, Torino 1978, p. 383, che noi invece traiamo dalla edizione Meridiani, vol. IV, trad. it. di G. Raboni, Mondadori, Milano, p. 752 :«Anche chi fu favorevole alla mia percezione delle verità che intendevo poi incidere nel tempio si rallegrò che le avessi scoperte “al microscopio”, quando era invece di un telescopio che m’ero servito per scorgere cose piccolissime, è vero, ma per il fatto di essere situate a una grande distanza, e ciascuna delle quali era un mondo. Mi si chiamava collezionista di particolari, mentre erano le grandi leggi che cercavo».