Contrappunto II
Leggere pulci per chi vuol leggere

pulciIn attesa di prendere visione di quello che sarà il Triennale Design Museum e in specie l’allestimento che pare ne sarà il fulcro, e più precisamente di capire come l’“installazione” filmico-cinematografica di Greenaway e Rota s’inserirà nell’architettura attentamente curata da Michele De Lucchi – per ora l’unico dato certo e tangibile del nascituro museo –, azzardiamo qualche riflessione sulle dichiarazioni d’intenti fatte durante la presentazione alla stampa del 21 settembre scorso. D’altronde poiché, stando alla cartella stampa, questo museo sarà «un’esposizione auto-riflessiva», noi possiamo darci il tempo per far le pulci, come si dice, per nostro uso e divertissement; alla fine dei conti, poiché solo sulle parole lavoreremo, potremo sempre dire che solo di un gioco di parole autoriflessivo s’è trattato. (Con un’avvertenza al lettore, poiché si apriranno molte parentesi ma si chiuderanno altrettante parentesi, e quel che tratterer[r]emo dentro potrà essere non meno interessante e autonomo di quel che resterà fuori.)Assumendo che la complessità è sempre difficile da gestire, integrando le componenti con coerenza e senza perdere in profondità, è evidente che in Triennale si è dato vita – con indubbio impegno – a una complessa articolazione di iniziative (ma appunto è una complessità voluta), che forse dall’esterno riesce difficile inquadrare ancora in una reductio ad unum intelligibile; ma può darsi il caso che nell’era delle contaminazioni e della multidisciplinarità ciò non sia da tutti inteso come difetto, e del resto le dichiarazioni son una cosa e i fatti un’altra, no?, e per questi – ancora una volta – dobbiamo avere pazienza.Data la nostra propensione a infilarci nel groviglio definitorio e terminologico (mea culpa) e a ritenere, per quanto ne sappiamo e per quante ne conosciamo noi (rispettivamente non molto e non molte, invero), che le parole abbiano un significato (anche se ciò non esclude il potere giocare con esse e ingannare), ci limitiamo a raccogliere qui solo alcune fra le affermazioni avanzate durante la presentazione alla stampa come fondanti per il Triennale Design Museum, che ci hanno suggerito qualche rilievo.1. La posizione di partenza per la creazione del Design Museum, ha detto Silvana Annichiarico, è stata precisa, ovvero «realizzare un museo innovativo che sia diverso dai musei già esistenti».2. Inoltre ha aggiunto uno degli autori dell’exhibit, Italo Rota, «non è una mostra ma è un museo di nuova tipologia»; un «museo/installazione dell’era dell’informazione visiva» (così in cartella stampa).3. Per quanto riguarda la collezione, valutando “arcaico e obsoleto” l’averne una di proprietà e, soprattutto, in considerazione del particolare contesto italiano – connotato da una presenza diffusa di “giacimenti” sul territorio, cioè archivi, musei, patrimoni delle imprese –, il Design Museum non avrà un proprio patrimonio/collezione, bensì attingerà a una rete di giacimenti, da cui “pescare” oggetti e “icone”. Anche perché il possesso di una collezione non collima, si è detto, con lo spirito della Triennale che è piuttosto produttrice di cultura4. Anche per l’“ordinamento”, ha detto sempre la direttrice del museo, si vuole prendere le distanze da modelli precedenti, in specie da quello dei musei d’arte figurativa, adottato in varie istituzioni già esistenti. Il Design Museum sarà perciò dinamico e mutevole, un work in progress da variare periodicamente e fondato sul desiderio di “imbastardire” la disciplina, mescolando, per sperimentare.5. È stato inoltre sottolineato più volte, dal presidente Rampello, da Annichiarico e dal curatore scientifico Andrea Branzi, che – superando l’impostazione che vede il design stretto fra arte e architettura, rispetto alle quali è stato a lungo posto in secondo piano – al centro sarà collocato non tanto l’oggetto in quanto tale bensì il contesto, fatto di emozioni, affettività, memorie, valori che aiutano a raccontare, nell’insieme, la storia di un paese, non solo materiale. Ovvero, come ha detto Greenaway, un museo degli oggetti senza oggetti.Ora, in astratto parlando, non ci sembra un ottimo criterio avviare un progetto tanto per fare qualcosa di completamente diverso da quanto già esistente [1]. O quanto meno dipende. Assumiamo pure che non in tal senso (cioè “faccio qualcosa solo per fare qualcosa di diverso dagli altri”) vada intesa la dichiarazione, ma approfittiamo per segnalare che – comunque inteso – si tratta forse di concept vago e buono per un certo marketing e per quella comunicazione cui fa buon gioco dimenticare che non c’è nulla di veramente nuovo (come qualcuno spesso rammenta). A noi pare, poi, che alle spalle del progetto dovrebbe esserci un’esigenza altra dal distinguersi a forza, un’esigenza che nel nostro caso dovrebbe essere quella di un museo del design italiano, in Italia, a Milano. “Ovvio!”, si dirà. Eppure non è così ovvio, né è questione di sfumature. Ammettiamo (ma si dovrebbe qui aprire ben altra parentesi) che l’esigenza di un tale museo si dia in Italia o per l’Italia; ma quali sono i soggetti che ne sono i portatori? Chi gli interessati? I turisti, i professionisti – nostrani e stranieri –, gli imprenditori, gli studenti, la società in genere? A chi di loro dunque si rivolgerà il nascituro museo? Dalle dichiarazioni ascoltate e lette nulla è stato detto chiaramente in proposito. Il museo includerà il design italiano del XX secolo, ed è stato detto che vorrà essere problematico piuttosto che fornire idee preconfezionate, essendo il design – sotto il profilo disciplinare – ancora in fase di inquadramento, dopo essere rimasto a lungo schiacciato fra architettura e arte. Ma per chi? Chi andrà nel museo?Se – come vogliamo immaginare – su questi aspetti i curatori hanno pensato e riflettuto, perché non dirlo anziché affidarsi a facili slogan? Va detto per esempio che online troviamo resoconto di un incontro avvenuto poco meno di un anno fa, sul tema del museo del design, durante il quale Andrea Cancellato, direttore generale de La Triennale, poneva i medesimi quesiti, che quindi sembrano non essere stati ignorati; ora, a pochi mesi dall’inaugurazione, però nulla vien detto di tale aspetto che non è certo accessorio. Così ci chiediamo se – certamente sotto l’accorta guida dei loro insegnanti, sicuramente preparati in materia grazie ai numerosi sussidi didattici disponibili in Italia per la formazione inferiore, media e superiore – al Design Museum si recheranno le scolaresche, così come affollano i musei d’arte, per ampliare la loro conoscenza del fare e dell’ars umani, e nello specifico italiani (se ciò abbia senso, poi).(Del resto [5] in tal caso che cosa potranno ricavare dal racconto in cui l’oggetto, il materiale si farà da parte rispetto all’apparato tecnologico mediale, al racconto filmico che proprio dell’oggetto [assente?] dovrebbe narrare il contesto? Se l’oggetto scompare o è in secondo piano, di che cosa sarà con-testo il contesto? Si vedrà più il mezzo o il contenuto, s’imparerà più dell’uno o dell’altro?)Parallelamente [2+3] ci chiediamo se l’uso insistito del termine “installazione” e il rifiuto di una collezione di proprietà non dicano più di quel che sembra. Cioè, se la separazione del momento della raccolta e della conservazione e di quello espositivo e allestitivo non rischi di generare un difetto, un peccato originale, in quell’area in cui si dovrebbero collocare fieramente il curatore e la ragione stessa di un museo (o Museo).Riconoscendo che, nelle sue vicende, sicuramente La Triennale è stata “produttore di cultura”, dinamico specchio del contemporaneo, ci chiediamo perché se ne voglia fare un museo, se – è detto dai curatori stessi – le caratteristiche proprie di un museo non coincidono con quelle in cui vuole identificarsi La Triennale, o viceversa. (Così, poi, in sede di presentazione del Design Museum si è inoltre appreso che per quest’ultimo sarà istituita una apposita Fondazione, altra rispetto a quella de La Triennale; eppure, non siamo certi che questa soluzione formale risolva i dubbi.) Domandiamo, ancora, perché si voglia essere – anzi “chiamarsi” – museo ma poi, siccome l’idea che si ha di museo in genere – quindi, fra l’altro, generica – non collima con i propri intenti, si pretende di fondare una nuova tipologia di museo. In Triennale insistono sull’aspetto sperimentale e problematico, sulla produzione culturale (by the way, parrà strano ma anche i musei sono produttori di cultura), sulla volontà di non cedere alla permanenza (quasi codesta fosse necessariamente un difetto, un sintomo di arretratezza; e pensare che in giro c’è qualcuno ancora che cerca un centro di gravità permanente). Il museo sarà un work in progress – si dice –, le installazioni indagheranno diverse problematiche (la prima di queste è “Che cos’è il design italiano”) per lasciare poi il posto a nuove tematiche e relative esposizioni. Ora, non è che si voglia negare l’importanza della sperimentazione e limitarsi a rinchiudere gli oggetti sotto vetro. Ma, a parte che non sono pochi i musei in cui si sono sperimentate modalità alternative e finanche multimediali di esposizione e narrazione (in alcuni, come il Science Museum di Londra, una sezione apposita è dedicata alla sperimentazione delle esposizioni, da includere eventualmente poi nell’allestimento permanente), esistono già – e da lungo tempo – altre tipologie espositive, senza scomodare i musei. Si pensi ai numerosi Science centre o “qualunque cosa” centre… (E del resto, per chi la voglia assumere, anche la più recente definizione di museo data da ICOM – certo non l’ultimo arrivato in questo campo – è tanto ampia che non occorre fondare nuove tipologie.)Ma già che ci siamo aggiungiamo una citazione, un appunto a quel che abbiamo scritto, in primis per noi stessi, per non vagare troppo guardando solo il nostro naso: «La diversità tra mostra e museo non sta solo nella dimensione temporale o nella priorità di conservazione del patrimonio e nelle funzioni connesse che il museo ha. La temporaneità dell’allestimento (la mutevolezza dell’esporre) permette di esaltare il carattere sperimentale e di ricerca nel campo ostensivo. Consente cioè una effettiva sperimentalità nei tipi di comportamento spaziale sul piano tecnico e tettonico e, non ultimo, nell’ordinare ed accostare innovativamente le opere. Ma è proprio questa caratteristica a connettere le esperienze della mostra con quelle del museo: la sperimentalità, come processo di costruzione del temporaneo, permette di configurare il definitivo come struttura nella funzione critica del mostrare» (Barbara Pastor, Note a margine, in Sergio Polano, Mostrare. L’allestimento in Italia dagli anni Venti agli anni Ottanta / Exhibition Design in Italy from the Twenties to the Eighties, Edizioni Lybra Immagine, Milano 1988, p. 134).Su questo punto della temporaneità e dell’avvicendarsi delle esposizioni ci vogliamo soffermare ancora un poco. Perché è vero che in un museo l’attività di ricerca e aggiornamento sono importanti e devono avere manifestazione, devono mostrarsi – il che implica modifiche nell’allestimento e nella presentazione. Ma questa ricerca e aggiornamento – ci pare – sono colà in strettissima relazione con le attività di raccolta e ordinamento dei materiali, cioè in rapporto diretto con la costruzione e la organizzazione di quel patrimonio che in Triennale si è rifiutato, per volontà o necessità. Privata della struttura su cui esercitarsi, tanta sperimentazione non finirà con l’essere più prossima all’arbitrio mutevole e personale, o all’iniziativa artistica, che all’avanzare critico della ricerca?Ormai che siam qui, procediamo ancora oltre. Fra le ragioni di tanta carica sperimentale è l’“impressione”, condivisibile, che il design sia stato per lungo tempo stretto fra arte e architettura, rimanendo rispetto a queste in secondo piano [5]. Tant’è, è stato dichiarato, che nel nascituro museo si vuole prendere le distanze da modelli precedenti, in specie da quello dei musei d’arte figurativa [4], per «proporre ed elaborare ipotesi, letture, senza dare risposte precise e preconfezionate». (Ancora una volta risuona l’eco: s’ha da fare qualcosa di diverso.) Ma nella stessa sede è stato anche detto che il design è disciplina «remota ma non ancora sistematizzata» proprio sul piano disciplinare-scientifico. E, sempre nella stessa sede, dalla stessa bocca, si è parlato di «volontà di imbastardire la disciplina».I conti non tornano. Perché se il design è stato stretto fra arte e architettura così a lungo da non riuscire a emergere autonomamente, allora laddove la disciplina voglia affermare alcunché del proprio sé, prima d’imbastardirsi non sarà bene che ricerchi e dichiari (o almeno ci provi) i propri natali? Prima di vagare, non sarà meglio che il design faccia la propria genealogia, ricostruisca parentele, amicizie e confini, stabilisca la propria dimora, materiale e immateriale? E se il design è stato posto in secondo piano rispetto ad arte e architettura, come potrà guadagnare il proprio primo piano se non per quello che è: materia, oggetti, processi e ancora materia e oggetti, prima che / insieme con affetti, emozioni, valori?Se non si vorrà lasciare il design in secondo piano, perché farlo soggiacere al mezzo?E se non ci si vorrà rifare a modelli da museo d’arte figurativa, ci chiediamo perché non esplorarne altri (che poi è quel che vorremmo fare noi…)? Usare come parametro – benché negativo – solo e sempre il museo d’arte non è già il segno di un limite?Di nuovo, non è che non cogliamo in superficie il senso di quanto udito o letto. È che siamo un poco pesanti, e ci succede di andare a fondo. E qui intravediamo il rischio che, dichiarando di volersi sottrarre alle madri/matrigne, e imbastendo una giovanile crisi di rifiuto parentale, il design finisca con il vagare e perdersi (naturalmente senza mai trovare il centro di gravità permanente, ché come abbiam già detto la permanenza è da scartare). O, peggio, finisca con il seguire ora questo ora quel Lucignolo, in uno spettacolo circense, cacciandosi nelle mani di un impresario che ne faccia ciò che più gli aggrada. Proprio laddove si rifiuta il modello museale delle arti figurative, insomma, e pretendendo di fare alcunché di inedito e spettacolare, si rischia di cedere alla (relativa) imprevedibilità dell’installazione artistica (e per esempio non ci sono ancora, o quasi, immagini dell’allestimento del Design Museum), nel modello dell’arte contemporanea o post-postmoderna, fra proiezioni e multimedia, suggestioni per i sensi tutti e per tutti i gusti. Proprio laddove pretende di dare una visione diversa, rischia di ricadere nel già visto. Il dubbio si rafforza leggendo i comunicati; è qui che, per chiarire l’oggetto al centro dell’installazione Greenaway-Rota si dice: «Mettiamo insieme un oggetto e un nome del design italiano e la scena si fa più chiara – Olivetti, Lambretta, Vespa…»; è qui che apprendiamo che saranno presentati «gli oggetti più carichi di senso del design italiano del XX secolo nel contesto della storia e della cultura italiana», «cento oggetti significativi dell’Italia contemporanea» (d’altronde già supra [3] abbiamo riportato che s’è parlato di “icone”)… Pur volendo vedere anche questi, l’impressione di un déjà vu e lu – o meglio di preconfezionato – c’invade. (Del resto peggiore è l’impressione suscitata da un’altra considerazione che troviamo nello stesso foglio della cartella stampa, in cui si dice: «perché parliamo solo degli ultimi cinquant’anni? Perché non gli ultimi duemila anni? Bene, se dicessimo così, faremmo ingelosire tutto il resto del mondo, e l’invidia, come diceva Livio, è un’emozione distruttiva e corrosiva». Però qui ci avvaliamo di un laconico no comment.)Ma per tutto quanto detto la verifica l’avremo dal 6 dicembre. Per ora s’è giocato con le parole, in maniera autoriflessiva.