Centri e Musei. #1
Scienza e tecnica

nemo_amsterdamAvevamo già detto qualcosa in merito riferendo del convegno sul lessico dei Musei storici, laddove scrivevamo – con riferimento alla proposta che i musei storici, appunto, si facessero centri di elaborazione del contemporaneo – che «se un istituto diventa un centro, se opera come un centro, allora è un centro e non un museo (il che peraltro non significa, poi, che un museo e un centro non possano essere prossimi e collaborare da presso; ma son due cose distinte)». Torniamo sul tema, che non può essere ignorato, anzi, e cerchiamo di precisare, con riferimento poi a quel che è di nostro interesse, il design. Alcune brevi considerazioni preliminari.Non è detto che un museo e un centro non possano convivere (ci viene in mente per esempio quanto coesiste nel Science Museum di Londra). Non è che non si tema di cadere in (o far crescere) questioni oziose o di aprire una serie di finestre infinita, o ancora di confondere i piani. Non s’intende, peraltro, sostenere una posizione pro/contro l’una e l’altra tipologia di struttura. Ma, in primo luogo, da qualche parte dovremo pur cominciare a ragionare; inoltre, in un’ottica che si faccia anche propositiva e progettuale, ci pare importante che si tenti di chiarire, distinguere e precisare ruoli e funzioni, per avere una griglia di lettura nella teoria e nella pratica.Un museo, di per sé, non è “semplicemente” un luogo di polverosa conservazione, ma è, o dovrebbe essere, un luogo di elaborazione culturale, a partire dal proprio patrimonio, di cui offre e diffonde interpretazioni, valorizzandolo. Per cui per essere “centro di elaborazione” dei propri contenuti non avrebbe bisogno di cambiar nome e chiamarsi “centro”, giacché, anzi, «un museo che non sia anche un istituto di ricerca scientifica, capace di elaborare culturalmente il proprio patrimonio e di dare un senso alle proprie esposizioni, non può essere considerato museo», come scriveva il già da noi molto citato Giovanni Pinna (Il museo come produttore di cultura, in Adalgisa Lugli, Giovanni Pinna, Virgilio Vercelloni, Tre idee di museo, a cura di Giovanni Pinna, Jaca Book, Milano 2005).Quelli che nascono come e si chiamano propriamente “centri”, viceversa, sono generalmente distinti dai musei. Perché? Principalmente perché non possiedono una collezione storica – e l’aggettivo “storica” è determinante, poiché accade certo che una qualche forma di collezione o raccolta di oggetti o strumenti si trovi pure in un centro, utilizzata però per i fini primariamente didattici e di sperimentazione dello stesso e non per fini di conservazione e valorizzazione (oggetti e strumenti ci sono, eccome, vedi per esempio la foto scattata al Nemo di Amsterdam; la differenza è nelle finalità, negli obiettivi). Quelli dedicati alla scienza – che costituiscono un modello per queste strutture (e si veda il sito di Astec, Association of Science – Technology Centres) – si caratterizzano «per l’uso di exhibits creati appositamente per la comunicazione di concetti astratti ed esperimenti propri del sapere scientifico» (Luca Basso Peressut, Musei per la Scienza. Spazi e luoghi dell’esporre scientifico e tecnico / Science Museums. Spaces of scientific and technical exhibition, Edizioni Lybra Immagine, Milano 1998), ovvero per la qualità sperimentale e interattiva della struttura, degli allestimenti e dell’offerta dei contenuti, affatto lontana da impostazioni celebrative e da vetrine con-chiuse per lungo tempo o una volta per tutte.[1]Aggiungiamo, ma è evidente, che stretto è il legame dei centri con l’attualità, la contemporaneità, il presente e il futuro, e in questo essi rappresentano sul piano espositivo e divulgativo – rispetto a un museo d’impostazione storica – le teste di ponte per i settori particolarmente caratterizzati da continue scoperta ed evoluzione. Come, appunto, la scienza, specialmente laddove si salda con la tecnica e la tecnologia. Queste considerazioni, del resto, ci parlano di una questione che riguarda e parte dai musei stessi, e che s’innesta nel vivo del confine/rapporto fra centro e museo.Seguiamo per un momento, o meglio per qualche pagina, Basso Peressut, che – prima di concludere l’Introduzione ponendo l’accento sulla necessaria contestualizzazione dei saperi che i musei devono mettere in atto per mostrare che le scienze e le tecniche costituiscono un sistema relativamente aperto, spostandosi verso un approccio che avvicina alla storia della società nel suo complesso – pone un altro tema fondamentale per queste istituzioni: «A differenza dell’arte [come segnalava Thomas Kuhn], la scienza distrugge il suo passato. I tempi della scienza e della tecnica, legati alle dinamiche di mutamento della ricerca e della produzione, e i tempi del museo, legati alla sedimentazione e alla riflessione, possono solo in parte coincidere. È infatti una condizione curiosa quella del museo scientifico, fin dalla sua nascita: testimoniare il “progresso” ma esserne continuamente scavalcato, parlare di contemporaneità ma scivolare continuamente nella storia. Come può il museo, per definizione espressione di una permanenza di valor, prestarsi a creare stabili forme dell’esposizione della cultura scientifico-tecnica che non vogliano essere solo celebrazione e “memento” ma essere fattivi strumenti di rispecchiamento del procedere del pensiero scientifico e tecnologico? La risposta non è semplice, proprio perché, come evidenziava Karl Compton [MIT] alla fine degli anni Quaranta, “se cercate di fare un museo di tutte le scienze, il vostro edificio si espanderà per miglia. E quando sarà completato per un quarto, la prima metà delle esposizioni sarà obsoleta”. Il museo scientifico, in quanto organismo architettonico è “risorsa finita”, deve perciò selezionare e sedimentare contenuti, programmi e progetti in funzione della propria identità […] ma al contempo presentarsi come istituzione in continuo divenire, nel tempo e nello spazio, cioè essere struttura disponibile a possibili e necessarie modificazioni di contenuti e forme» (ivi, p. 16). Nella storia non lineare e variegata dei luoghi preposti all’esposizione scientifica e tecnologica si ritrovano, più o meno patenti e consapevoli, tali tendenze. E sebbene non si tratti di una evoluzione univoca dei tipi, tale che l’uno soppianti l’altro, è pure ravvisabile un tracciato che va dalla mera raccolta ed esibizione alla dimostrazione articolata, dalla esposizione e dall’insegnamento per esemplarità alla sperimentazione, ovvero dagli oggetti ai concetti (le vicende sono ben altrimenti complesse, e oltre che l’Introduzione ne rendono conto gli altri capitoli di questo ricco volume).[2] Basso Peressut dedica un paragrafo a Oggetti e concetti, ed è qui che scrive: «Se escludiamo i musei di storia della scienza oggi esistenti […] che si collocano, per loro carattere, al di fuori del tempo e al di sopra della storia, per gli altri musei [della scienza] il moto incessante della ricerca scientifica e dello sviluppo tecnico-produttivo rende con sempre maggior velocità vecchio e inutilizzabile ciò che solo ieri era nuovo, attivo» (ivi, p. 32), al punto che gli studiosi e scienziati sono i primi a disertare tali luoghi.Per cui «i musei scientifici oggi, schiacciati fra peso della storia e urgenze della contemporaneità esprimono con difficoltà il proprio ruolo». È in «questa incertezza epistemologica [che] si collocano anche i science centres» (ivi, p. 33) che, sviluppatisi ma resisi autonomi dai musei, hanno posto, «all’attenzione della cultura museografica ed espositiva il concetto di museo come medium di pura comunicazione in mancanza di oggetti di significato storico». Ecco il punto: «il fatto che si possa creare un museo senza partire da un insieme di materiali collezionati fa mancare quella condizione, storicamente data, che presiede all’origine dell’istituzione museale. Un science centre è notoriamente un luogo per esporre non oggetti, ma concetti […]». Ma appunto o il museo muta nelle sue connotazioni fondamentali, oppure il centro non è un museo, bensì un centro.Per quel che riguarda il volume di Basso Peressut, avendo l’autore fin da principio sottolineato il carattere multiforme di tipi e prototipi dei luoghi dell’esporre e del comunicare scientifico, una sezione è dedicata proprio a queste strutture: “Palazzi delle scoperte: i musei della comunicazione scientifica” (ivi, pp. 95 ss).Per quel che riguarda noi, ci permettiamo ancora di rilevare una sorta di irriducibile difficoltà a distinguere, o a tenere distinte, l’una e l’altra tipologia di istituzione; e certamente ciò è dovuto ai fatti, all’origine e al progetto di luoghi e funzioni, ai casi di enti in cui l’apparenza espositiva del museo si mescola con la reale attività del centro (chi sa, forse anche viceversa). Ma, ricordiamo, una esposizione di oggetti di per sé non è necessariamente museo; si può parlare di esposizione, raccolta, collezione… (e forse queste distinzioni potrebbero tornare utili anche per esempio nel caso di alcuni cosiddetti “musei d’impresa”). Fra gli esempi portati da Basso Peressut troviamo il Tepia, Centro per la scienza e l’alta tecnologia di Tokio (progettato da Fumiko Maki Ass., 1989): «Tepia si caratterizza come centro di informazione, documentazione ed esposizione di prodotti di alta tecnologia destinati alla comunicazione. È anche un centro di dimostrazione e di incontro commerciale. Nel centro-museo Tepia vengono organizzate mostre e dimostrazioni di macchinari avanzati, conferenze, attività didattiche […] Lo scopo è quello di promuovere lo scambio di conoscenze e informazioni aggiornate tra professionisti, ricercatori e pubblico generico [i corsivi sono miei]». Dopo aver detto che il centro include, oltre alle aree espositive/gallerie, una videoteca, sala conferenza, ristorante, club e piscina, le parole che concludono la scheda sembrano esprimere quella difficoltà di cui dicevamo: «… un edificio espositivo-comunicativo che certamente poco si lega all’idea tradizionale di museo».Il volume di Basso Peressut è ricco di stimoli, che consentono di trarre interessanti riflessioni. In vista di quel che potremo poi tentare di dire con riferimento al design, ci pare importante fissare alcuni dati: il fatto che la documentazione e la narrazione di discipline come scienza e tecnica costringe a un costante confronto con il presente, laddove quel che da un lato è aggiornamento può significare dall’altro obsolescenza; il fatto che, in ragione dei contenuti, i musei di scienza e tecnica, rispetto ad altre tipologie, hanno posto presto il problema della flessibilità e della trasformabilità degli spazi (si veda per esempio ivi, pp. 54 ss); il fatto che esiste una consistente parte storica, che si nutre di un selezionato presente, che deve continuare a essere sedimentata ed elaborata, e che ancora può e deve essere arricchita giovandosi di approcci sistemici capaci di contestualizzazioni di ampio respiro (pp. 36 ss). Ovvero infine, ci pare di poter ricavare, il fatto che se la comunicazione della scienza e della tecnica, in specie per quel che pertiene ai concetti e alla sperimentazione contemporanea, può vestirsi di altre forme – quelle delle mostre temporanee e dei centres spettacolari –, queste devono darsi in aggiunta e non in sostituzione delle strutture storiche. Perché se è vero che la scienza distrugge il proprio passato (Kuhn) i musei sono lì proprio per raccontare anche quel passato, nelle sue espressioni materiali e nelle implicazioni immateriali.[1] Ragguagli sui centri per la scienza o science centres si trovano, fra l’altro, anche in un documento scaricabile relativo al progetto di fattibilità per un Grande Science Centre per il Friuli Venezia Giulia, del quale il Laboratorio dell’Immaginario scientifico di Grignano (Trieste) è il nucleo fondante. In tale documento si fa riferimento naturalmente all’Exploratorium di San Francisco, modello per simili strutture, nato dalla idea di Frank Oppenheimer, fisico e fratello di Robert, per un «moderno museo scientifico interattivo o science centre. […] L’idea nuova di cui Oppenheimer si faceva portatore era l’interattività tra visitatore e oggetti messi in mostra, non più soltanto da guardare, ma concepiti piuttosto come installazioni da manipolare al fine di realizzare un esperimento. L’utente del museo, da soggetto puramente contemplativo, diventa quindi un protagonista che interagisce con l’exhibit (questo il nome dato alla struttura allestitiva in questione) ed è messo in condizioni di esplorare secondo un metodo che è proprio della scienza: quello sperimentale. […] La sua convinzione era che […] un livello sempre più diffuso di acculturazione scientifica fosse necessario proprio in una società avanzata e democraticamente organizzata e al cui consenso era ormai affidato il controllo del corretto uso dei prodotti finali della ricerca: un controllo che non poteva essere responsabilmente esercitato senza una diffusa conoscenza di base». Interessante notare, in riferimento alla convivenza/con-fusione di forme e funzioni, l’uso dell’espressione “museo scientifico interattivo” e il fatto che nel paragrafo 3.3.3 si parli del progetto “L’Altromuseo”, come possibilità – dato l’interesse di alcuni musei europei – di «creare una sorta di “museo dei musei” all’interno dell’esposizione triestina che ospiterà duplicati, versioni ridotte o allestimenti realizzati ad hoc provenienti dai diversi musei coinvolti nell’iniziativa. Le postazioni saranno costituite, a seconda dei casi, da punti informativi dotati di supporti digitali (CDrom, ipertesti, web publishing ecc.), da giochi e postazioni interattive o da exhibit hands-on». Ma, ancora una volta: “Altromuseo” o “Altrocentro”?[2] A questo proposito, con riferimento strettamente ai science centres, si veda anche quanto ricorda Thomas Krakauer (Museum of Life and Science, Durham, North Carolina): «Early on, we were still doing battle over “hands-on.” That discussion eventually crystallized as the concept of “first-generation” to “fourth-generation” institutions — with first generation being the collections-oriented science museum, and fourth generation moving from mere interactivity toward becoming a true center of constructivist learning» (“Dimensions”, 2004, maggio-giugno).