Graphic design, esporre, curare / 2 – Chaumont 2015

2016-01-14 - Maddalena Dalla Mura

Come ho scritto in un post precedente, negli ultimi anni alcuni studenti e laureandi in graphic design mi hanno scritto per rivolgermi domande sul tema dell’esporre la grafica e del curare mostre di grafica. Fra gli altri quesiti, mi veniva chiesto se ritengo importante esporre la grafica, e come sia meglio farlo o come si dovrebbe farlo.
Ora, per quanto riguarda il primo interrogativo, è chiaro che le mostre di design e di grafica sono occasioni per dare “visibilità” al lavoro dei designer e ai designer stessi, e dunque sono necessari e importanti momenti nella vita della comunità del design. Possono inoltre essere opportunità per avanzare interpretazioni e riflessioni critiche sul passato, presente e futuro del campo, e dunque possono avere una valenza nella produzione e registrazione di pratiche e discorsi utili, oltre l’immediatezza dell’evento, all’avanzamento della disciplina. Laddove, poi, i designer riescono a non cedere alla tentazione autoreferenziale, le mostre possono essere un medium importante per comunicare con il pubblico, per trattare temi e storie diversi attraverso il design – una direzione, questa, in cui i graphic designer interessati al dispositivo della mostra credo dovrebbero investire maggiormente.
Ciò detto, come si espone, o come è meglio esporre, il design, e in particolare il graphic design? Non esiste, naturalmente, una risposta univoca, perché.

Nel maggio 2015 per la prima volta ho visitato il Festival de l’affiche et du graphisme di Chaumont. In questa cittadina della Alsazia-Champagne-Ardenne-Lorena, la questione di come esporre il graphic design è particolarmente sentita: mentre prosegue l’edizione annuale del premio dedicata a una delle forme più tradizionali della grafica, il poster, che si manifesta con mostre, conferenze e altre iniziative, è stato completato e a breve sarà aperto il Centre international du graphisme, che sarà dedicato a promuovere il graphic design anche attraverso esposizioni. L’edizione 2015 del Festival, a dire il vero, non è stata una delle più ricche – questioni di budget hanno comportato una riduzione delle iniziative, e per esempio nessuna mostra è stata organizzata alla Chapelle. Ai miei occhi è stata comunque un’esperienza stimolante.

Ho potuto visitare gli archivi nell’edificio Les Silos, maison du livre et de l’affiche, dove fra gli altri eventi in calendario era allestita una mostra dedicata al laboratorio/collettivo femminista di stampa/grafica See Red Women che negli anni settanta del secolo scorso ha realizzato e diffuso poster relativi alla immagine e condizione femminile.

Chaumont_2015_See-Red-Women

Inoltre, la stessa consegna del premio del concorso internazionale è stata ricca di spunti. L’evento era stato organizzato nella palestra locale, dove le schiere di grafici qui riuniti per l’occasione si sono seduti sugli spalti, per fare il tifo per i colleghi chiamati a sfilare al centro del campo di gioco.
Qui era collocato un palco con uno schermo su cui venivano proiettate le immagini delle raffinate e articolate grafiche selezionate. Guardando quel palco non ho potuto fare a meno di notare come questo sembrava una isola o una barchetta alla deriva, separata dalla realtà del panorama visivo e grafico quotidiano di cui le pareti della palestra – sui cui si stagliavano varie insegne di negozi e aziende che sponsorizzano le attività sportive locali sulle pareti della palestra – offrivano un eloquente campionario.

Chaumont_2015_Award-ceremony_1

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A parte queste suggestioni, comunque, un aspetto particolarmente interessante per me della edizione 2015 del Festival era che uno dei panel/conversazioni organizzati era proprio dedicato al tema “Graphisme dans l’exposition”. Moderatore era Étienne Hervy, direttore artistico del Festival. Gli speaker invitati erano figure coinvolti a titolo diverso nella organizzazione del premio e di alcune delle mostre del Festival: i graphic designer Annelys de VetGiorgio Camuffo e la storica del design Emily King.

Camuffo era membro della giuria del premio e ha partecipato dunque al processo di selezione degli oltre 150 manifesti (selezionati fra oltre 1800 ricevuti), presentati in sequenza lungo le pareti del piano terra di Les Subsistances, senz’altra informazione che il nome del designer, il paese d’origine e il cliente/committente.

Chaumont_2015_Selection

Come giurato, inoltre, era stato invitato a esporre il proprio lavoro, cosa che lui aveva scelto di fare presentando una selezione di manifesti ideati da vari grafici internazionali che lui aveva invitato, negli anni novanta, a collaborare con il suo Studio – una sorta di tributo a questi colleghi, esplicitato nella versione degli stessi manifesti disegnata da Giorgio e completata con sue annotazioni personali sull’incontro e l’amicizia con quelle figure.

Chaumont_2015_Camuffo

De Vet aveva coordinato la giuria del concorso per studenti e ne aveva e ha curato/ordinato la mostra dei lavori selezionati (36 su 260 pervenuti). Il tema proposto per questo concorso era “Unmapping the World” – dal titolo di una precedente mostra realizzata da De Vet alla Biennale portoghese Experimenta. L’invito rivolto agli studenti era di ripensare il modo in cui rappresentiamo il mondo, in maniera più “inclusiva” e “liquida”, cercando di adottare un approccio multimediale capace di rendere conto delle dinamiche che caratterizzano l’epoca in cui viviamo. I lavori selezionati includevano manifesti e infografiche a stampa o su tessuti, libri, ma anche video e progetti web, nonché una serie di tappeti, il tutto esposto – al primo piano di Les Subsistances – in un ambiente semibuio che evocavano l’ambiente scolastico, con banchi, sedie e lavagne.

Chaumont_2015_Unmapping-the-world_De_Vet

Infine il contributo di King per questo Festival era il comunicato stampa/presentazione della mostra Syndicat et Matthieu Laurette présentent MATTHIEU: Une rétrospective dérivée, 1993-2015, insieme retrospettiva e curioso esercizio di ri-mediazione del lavoro dell’artista Matthieu Laurette da parte dei graphic designer Sacha Léopold e François Havegeer (Syndicat). Il lavoro di Laurette generalmente nasce per ed entro contesti non tradizionali dell’arte, e raramente si concretizza in un oggetto/opera; al più esiste come documentazione, in immagini e video. Syndicat ha selezionato una serie di immagini e le ha tradotte nella forma di ogni possibile oggetto di merchandising acquistabile online – dalla carta igienica alle cover per iPhone. Come spiegava King nel suo testo – stampato su fogli A4 (e disponibile online) –  Syndicat “use exhibitions as vehicles to explore the interaction of craft and economics behind the production and distribution of text and images”. I prodotti così realizzati sono stati esposti in una griglia di legno adagiata sul pavimento, sopra una gigantografia di Matthieu Laurette. In altre due simili griglie erano inoltre esposti altri lavori di Syndicat, fra cui Ricardo – dal nome dell’economista David Ricardo – un poster fatto stampare da tipografie e service in diversi paesi del mondo.

Chaumont_2015_Syndicat-Laurette

Per completezza, va detto che oltre a queste mostre, nello spazio di Les Subsistances era anche allestita una mostra dedicata ai poster di designer svizzeri, di Lucerna, città dove si tiene pure un festival dell’affiche, Weltformat. Anche in questo caso i poster erano semplicemente appesi al muro, organizzati per autore. Infine, in giro per le varie mostre, oltre a fogli con testi introduttivi o esplicativi, anche alcuni fogli con attività per ragazzi che invitavano a esplorare le grafiche e gli elementi visivi dei materiali esposti – una iniziativa legata al lancio del Livret d’initiation au graphisme ideato e progettato da Sophie Cure & Paper ! Tiger ! (Aurelien Farina).

Con tale concentrazione di mostre di grafica e realizzate da grafici, è stato interessante poter anche ascoltare una discussione sul tema. Durante il panel gli speaker sono stati innanzi tutto invitati da Étienne Hervy a raccontare il loro approccio all’esporre la grafica/design.

Chaumont_2015_Panel

 

De Vet, che è anche direttrice del master in design del Sandberg Instituut, oltre a illustrare l’idea su cui si basa “Unmapping the world”, ha raccontato del suo crescente impegno negli anni recenti in attività espositive. In particolare ha portato l’esempio del progetto Disarming design from Palestine, una sorta di etichetta di prodotti realizzati in Palestina realizzati per far riflettere sulle condizioni di vita in questo paese; in questo caso, ha dichiarato De Vet, la mostra può diventare una sorta di “marketing tool”, uno strumento per alimentare la discussione e uno spazio nel quale oggetti culturali possono essere usati per costruire narrazioni.

Camuffo, da parte sua, spiegava che per lui – non un curatore per professione – il motore per organizzare mostre è che queste sono opportunità per seguire/esplorare curiosità personali, per cercare di capire il lavoro altrui, scoprire nuovi approcci, e per presentare al pubblico tali esperienze: è questo il filo, spiegava, che tiene insieme le mostre organizzate, da  Pacific Wave (Venezia, 1987) – che introduceva la grafica californiana al pubblico italiano – fino alla più recente mostra di taglio storico Grafica italiana, co-curata con Mario Piazza e Carlo Vinti come quinta edizione del Triennale Design Museum a Milano.

Per King curare mostre è stata invece una estensione della sua attività di storica del design. Rispetto alla scrittura, King ha detto di apprezzare in particolare della curatela sia la possibilità di collaborare con altre persone sia il grado maggiore di libertà che essa offre. Nell’esprimere il suo interesse per le mostre come occasione per ridare significato o costruire nuovi significati attorno agli oggetti – menzionava per esempio la mostra dedicata al lavoro di Richard Hollis e da lei curata nel 2012 – King si è anche dichiarata non interessata alla produzione di grafica solo per le mostre – una tendenza piuttosto praticata dai designer contemporanei.

In definitiva gli speaker, e anche il moderatore, sembravano condividere l’idea generale che le mostre consentono di produrre nuova conoscenza e interpretazione del design. Nonostante questo accordo di base, le posizioni però si sono allontanate progressivamente, e anche un po’ irrigidite, allorché la discussione si è fissata su un caso specifico, l’esposizione dei poster selezionati per il premio. Attorno ad essa è emerso ogni genere di critiche e questioni – come se si fosse aperto un vaso di Pandora – denotando la varietà di possibili personali interpretazioni del medium espositivo in relazione al design.

Provo a riassumere alcune di queste questioni, usando le mie parole ma basandomi sugli appunti che ho preso: Come si affronta il problema della decontestualizzazione della grafica esposta? Esporre il design fuori contesto ne riduce la comprensione o offre nuove possibilità di comprensione? Come evitare di ridurre la grafica esposta a pura decorazione o a pura immagine? Ma, poi, esiste davvero un pubblico interessato alla grafica o è un tema noioso per coloro che non sono specialisti o del settore? Oppure sono i grafici a ritenere che la grafica sia noiosa e a non considerare che, al contrario, il pubblico non specializzato è in realtà molto interessato a capire, e vorrebbe avere più informazioni? La grafica deve essere trattata come oggetto culturale e si deve quindi cercare di raccontarne o esporne i molteplici significati, fornendo diversi livelli di informazione? Il pubblico può comprendere un poster, per esempio realizzato in una lingua che non conosce, e come può capirne i contenuti e i modi di produzione se non vengono fornite queste informazioni, per esempio nelle didascalie? Ma se si forniscono informazioni sul contenuto della grafica esposta si sta ancora facendo una mostra di grafica o si sta facendo una mostra su altri temi, veicolati dalla grafica? Eppoi, non è forse contraddittorio voler spiegare la grafica, una grafica, dato che questa dovrebbe comunicare di per sé? E perché mai esorcizzare l’aspetto estetico e l’impatto visivo della grafica, considerato, fra l’altro, nel caso specifico della mostra dei manifesti selezionati per il premio, che il criterio estetico/visivo è quello che ha guidato la selezione da parte dei giurati, così che si potrebbe semmai dire che l’esposizione in sequenza dei manifesti è una onesta restituzione del processo di selezione? D’altra parte, come si fa, per restare al caso del premio, a raccogliere informazioni su tutti i poster quando i designer stessi, nonostante le richieste, non sono disposti a fornirle? E così via.

A un certo punto, la discussione sulla mostra del premio oscillava confusamente fra questioni molto generali e altre troppo particolari e tecniche. Sembrava di assistere alla riunione di un comitato mal assortito di curatori di una mostra che non si sarebbe mai potuta fare. Il fatto è che tutte le loro diverse e contrapposte posizioni e opinioni sul senso e sul modo di organizzare mostre di grafica erano legittime e sostenibili in sé, ma non si poteva arrivare a una soluzione univoca e definitiva a meno che non ci si mettesse prima di tutto d’accordo sulle intenzioni.

Come infine ha rimarcato De Vet, in effetti, quando si cura e organizza una mostra ci si deve prima di tutto chiedere qual è l’obiettivo, quale l’intenzione primaria, cosa e chi si vuole raggiungere. Un ottimo assunto di partenza, senza considerare il quale non è possibile ragionare sul cosa e come esporre.

In definitiva, organizzare una mostra di design significa pur sempre organizzare una mostra, e questa è una attività che richiede di affrontare alcuni interrogativi fondamentali: perché? per chi? cosa? come?

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