Graphic design, esporre, curare / 1

2015-12-15 - Maddalena Dalla Mura

Qualche tempo fa ho ricevuto una email da parte di una studentessa italiana di un corso di laurea specialistica di comunicazione visiva che con la sua tesi, come mi ha spiegato, intende indagare la relazione fra graphic design e contesto espositivo, e su questo tema desiderava rivolgermi alcune domande. Non è la prima richiesta del genere, ed è probabile che non sarà l’ultima.
A parte servire come assistente curatore per una mostra di graphic design contemporaneo, nel 2011, Graphic Design Worlds, curata da Giorgio Camuffo, per la quale oltre trenta designer, italiani e internazionali, sono stati invitati a esporre il loro “mondo”, il loro approccio e lavoro, progettando da sé la propria presenza in mostra – per qualche tempo negli anni successivi, sempre con Camuffo, mi sono occupata di seguire ed esaminare l’interesse dei graphic designer per l’esporre, le pratiche espositive e curatoriali in un periodo in cui queste sembravano avere assunto una inedita rilevanza come modalità di auto-riflessione nonché di produzione e mediazione della grafica. Nel quadro di questa ricerca – Graphic design, exhibition context and curatorial practices, svolta presso la Facoltà di Design e Arti della Libera Università di Bolzano – anche io ho fatto interviste, raccolto esempi, valutato casi; inoltre abbiamo organizzato una conferenza e realizzato una piccola pubblicazione con gli atti e la discussione (Graphic design, exhibiting, curating, Bolzano: bu,press, 2013).

Gli studenti/laureandi interessati a simili temi e che mi hanno scritto finora – a parte porre questioni piuttosto generali sul destino del graphic design – solitamente mi chiedono se e perché è importante esporre il graphic design, se fare mostre sia ancora rilevante oggi, se ci dovrebbero essere più mostre di graphic design, che cosa funziona e cosa non funziona quando si espone la grafica – o come si “dovrebbero” fare le cose, dalla idea al catalogo –, se esporre o organizzare mostre è una forma o estensione del graphic design o del suo processo, se e come le mostre possono favorire/sostenere la riflessione e il discorso sul graphic design o la ridefinizione del ruolo contemporaneo del graphic designer, e così via. Alcuni di questi laureandi e giovani designer sembrano inoltre interessati a individuare “metodi” per esporre la grafica o per esporre come (forma/pratica di) graphic design, e le loro tesi si concludono con un progetto espositivo.

Certamente alcune di queste domande me le sono poste pure io, sebbene, non essendo designer io stessa, il mio sguardo è infine un po’ diverso dal loro. Quello che ho pensato di fare, per fissare alcune risposte, è di provare a riassumere, in termini semplici, quello che penso su alcuni punti e fornire qualche riferimento che spero possa essere utile a chi si muove in questo territorio.

Lo farò in una serie di post, di cui questo è il primo.

L’esperienza delle mostre

Per cominciare, sì, ritengo che il medium della mostra, come spazio concettuale e fisico, materiale e immateriale di relazione, di incontro e di produzione di significati continua ad avere rilevanza nell’epoca contemporanea – forse anche di più, visto che viviamo con il naso dentro qualche schermo di pochi pollici.
Questa mia convinzione non è generica ma fondata sulla mia esperienza. Mentre infatti la mia esperienza di organizzatore di mostre è alquanto limitata, ho acquisito negli anni una certa esperienza come visitatore. Mi trovo a mio agio nelle mostre e ne ho visitate parecchie per studio e interesse personale; la maggior parte delle volte ho portato via con me immagini, suggestioni, informazioni e domande. Come visitatore, naturalmente, la mia valutazione e il mio ricordo delle mostre dipendono da molte variabili, dal mio grado di attenzione e interesse, e soprattutto dal dialogo che, caso per caso, si sviluppa/instaura fra le mie motivazioni e aspettative, le informazioni eventualmente raccolte prima della visita e quel che vedo, leggo, sento e faccio quando mi muovo nell’ambiente dell’esposizione; da un singolo oggetto (posso ricordare ancora bene la collocazione della macchina per la eutanasia nel Science Museum di Londra); dall’impressione che ricevo dai colori e dalle luci o dal buio di una sala; dalla presenza o meno di contenuti aggiuntivi (perché non c’è neppure una didascalia? oppure, perché quel testo descrittivo è messo così in grande che non posso evitare di leggerlo prima di avvicinarmi a questa opera e ho perso l’occasione di sperimentare la relazione diretta con questa installazione e pormi domande su di essa?); dalla esperienza più o meno positiva che posso avere di certe soluzioni allestitive (per esempio la sensazione di fluire attraverso le sale, o viceversa di sentirmi forzata lungo un certo percorso o ancora impedita nei movimenti); la possibilità di fare altro che guardare, come toccare, annusare, ascoltare (per esempio perché non posso toccare questa poltrona se la sua particolarità è proprio il materiale?).

Mi sono anche resa conto che la mia esperienza può essere arricchita dal dialogo che posso avere durante la visita con altre persone che siano con me o che si trovino nello spazio della mostra – un amico, un guardasala o un explainer per esempio, che si avvicina per darmi una informazione oppure per raccontarmi cosa lui/lei preferisce di una certa sala, rendendo memorabile quel momento (questo è quello che mi è accaduto per esempio al Luce Center della New York Historical Society, quando un guardasala ha voluto mostrarmi il suo quadro preferito della collezione).
(La lettura del libro di Bruno Ingemann Present on Site: Transforming Exhibitions and Museums, Lejre: Visual Memory Press, 2012, ha particolarmente stimolato la mia attenzione sull’importanza del dialogo durante le visite; si veda il sito http://www.present-on-site.net.)
Anche osservare quello che fanno gli altri visitatori mi aiuta quando voglio capire meglio una mostra o valutarla (soprattutto quelle di design, rispetto alle quali mi avvicino maggiormente carica di preconcetti). A loro piace o no? Che cosa li attira? Che cosa si dicono fra loro davanti a un exhibit?

Tanto per fare un esempio di mostra di design, lo scorso anno quando ho visitato la mostra di Martino Gamper Design is a state of mind alla Serpentine Gallery mi aspettavo di assistere alla rappresentazione un po’ autoreferenziale di un certo mondo/comunità del design – la mostra presentava collezioni personali di artisti e designer e altre persone conoscenti di Gamper, disposte su arredi iconici d’epoca o contemporanei.
In realtà, durante e dopo la visita la mia opinione della mostra si è sviluppata diversamente, dettata non solo dal piacere che ho tratto dall’osservare le curiose collezioni di oggetti ma anche dall’avere notato due signore inglesi, presumo due amiche, che si sono messe a scambiare fra loro ricordi davanti ad alcuni oggetti in plastica. Guardandole, ho immediatamente pensato che la mostra funzionava e che era una ottima occasione per riflettere su quanto la cultura materiale diventa parte della nostra esperienza di vita quotidiana. Infine il mio unico disappunto era di non poter avere qualcuno con me con cui condividere i miei pensieri sugli oggetti.

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In breve, credo che chi voglia organizzare, progettare o occuparsi di mostre, prima di porsi tante domande in astratto, dovrebbe fare esperienza diretta delle mostre come visitatore, a tutto campo. E intendo chiaramente mostre di ogni genere uscendo dalla visione riduttiva che viene data spesso implicitamente per assunta che “mostra” o “museo” = mostra o museo d’arte. Il panorama di tradizioni, contesti, convenzioni, approcci, percezioni, pubblici è ben più variegato. Una visione comprensiva/ampia e approfondita di questo panorama è un requisito necessario per chi desideri occuparsene, e aiuta a porre le cose in prospettiva.

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Curare, Esporre, Grafica, Mostre, Musei