Parlare di graphic design ed esposizioni oggi significa affacciarsi su un paesaggio in cui i designer stessi sono in prima fila. Mentre possiamo continuare a discutere (si veda il post precedente) su come si espone il graphic design e se sia sensato farlo, i graphic designer stessi si sono dimostrati alquanto interessati nelle attività espositive. Come il progetto editoriale – il libro, la rivista – qualche anno fa, oggi le mostre sono viste dai designer come una piattaforma per disseminare e produrre nuovo lavoro, per collaborare con colleghi, per incontrarsi e per condividere esperienze e riflessioni. Accanto alla occasionale presentazione del loro lavoro, in mostre individuali o collettive, nell’ultimo decennio vari designer si sono specificamente impegnati nella produzione di progetti e installazioni ad hoc e nella organizzazione di piccole mostre in diversi contesti – incluse le istituzioni culturali che sono loro clienti e con cui collaborano, o i loro stessi studi e uffici, opportunamente trasformati in spazi culturali.
Il fenomeno, certo, è piccolo ma piuttosto evidente, specialmente fra i designer cosiddetti “indipendenti” che lavorano nel settore dell’arte e della cultura, seguiti da molti studenti che spesso sono loro allievi presso vari Master in Europa e Nord America, allenati a esplorare le relative libertà dei lavori self-initiated e a presentarli ai loro pari (su questo tornerò in seguito).
I designer impegnati in attività espositive sembrano considerarle ormai parte della loro pratica quotidiana, e alcuni dichiarano che essere un curatore è di per sé una modalità di svolgere l’attività progettuale – con varie declinazioni, da quella più “editoriale” a quella più “autoriale”. In questi anni sono stati esplorati vari concetti e modalità espositivi: oltre la formula più tradizionale della mostra-portfolio, si sono viste mostre concepite per presentare il processo che sta dietro ai progetti esposti; mostre di progetti editoriali che generano altri prodotti editoriali; mostre di materiali a stampa che poi diventano oggetto di altre mostre e viceversa, in una specie di infinito gioco di specchi; installazioni e re-installazioni site-specific; mostre dove i visitatori possono comporre il loro catalogo; mostre che sembrano rendez-vous fra i grafici e i loro simpatizzanti, in cui vengono discorsi e nuovi lavori; designer che si mettono in mostra mentre producono il loro lavoro… (Di questo ho scritto con Giorgio Camuffo nella introduzione al libro Graphic design, exhibiting, curating)
In breve, ogni preesistente (e presunto) tabù che i grafici potevano avere rispetto al contesto espositivo sembra essere svanito.
Questa liberazione è certamente positiva: le mostre sono un momento organizzativo fondamentale nella vita della comunità del design, sono occasioni per presentare e far circolare il proprio lavoro, per incontrarsi direttamente con un pubblico, e, chiaramente, per costruirsi una reputazione. In definitiva aiutano a mantenere viva l’attenzione e la motivazione.
Tuttavia, riguardato da una certa distanza, questa fenomenologia di eventi rivela alcune tendenze che meritano di essere segnalate e discusse.
In primo luogo, si può osservare, da un lato, una tendenza a etichettare qualsivoglia presentazione/esposizione di materiale grafico, o dei designer stessi, come una “mostra” o un progetto “curato”, dall’altro a equiparare un po’ ingenuamente la organizzazione e cura di una mostra al fare un progetto di grafica e un layout.
In secondo luogo, mi pare riduttivo che gran parte dell’investimento da parte dei grafici in attività espositive si concentri su queste come opportunità di auto-riflessione individuale o collettiva – come se la motivazione principale e più urgente per adottare il formato della mostra, e di comunicare con un allestimento, fosse produrre e generare qualche forma di discorso su se stessi, fra i propri pari. Accanto al feticismo, del resto, l’autoreferenzialità è una delle questioni più ricorrenti all’interno del campo del graphic design. Ad essa si lega anche l’apparente ossessione per la ri-mediazione del proprio lavoro che sembra caratterizzare molte delle iniziative espositive avviate dai grafici. Certo, la mediazione è al cuore del progetto grafico, è quel che i designer affrontano ogni giorno nei loro lavori, non da ultimo quando affrontano progetti di mostre per i loro clienti: devono rendere visibile, sostenere ed espandere la vita di opere, storie, idee, oggetti. Dunque non sorprende che adottino un simile approccio anche nelle loro installazioni… Se non che, quando il contenuto o la storia da comunicare è il loro stesso lavoro, il risultato rischia di rivelarsi un mero esercizio di bravura, di fronte al quale non si sa più cosa si debba guardare, ovvero se ci sia davvero un messaggio. Da questo punto di vista, se i graphic designer, come si auspica, continueranno a esplorare il medium espositivo, c’è da augurarsi che riescano a uscire dal cerchio ristretto della propria affermazione autopoietica.
Infine, oltre ma anche dietro ai rischi sopra menzionati, non si può non notare come problematico il fatto che l’interesse dei designer per il format espositivo appaia influenzato dagli approcci e dai valori circolanti nel sistema dell’arte – una influenza che rischia di limitare la loro capacità di visione e apertura rispetto ai possibili utilizzi del medium espositivo.
Come menzionato sopra, i designer maggiormente coinvolti in progetti curatoriali ed espositivi sono quelli che operano al servizio del mondo dell’arte, in specie dell’arte contemporanea. Effettivamente questo sistema, negli anni recenti, ha offerto ai grafici un certo spazio di collaborazione e ricerca in cui essi hanno potuto dare sfogo alle loro ossessioni e al loro feticismo – uno spazio che si è aperto, non da ultimo, come effetto della nuova ondata di “demistificazione” che ha spinto vari artisti e curatori a riconoscere e includere nei loro interventi molte delle componenti materiali della produzione e mediazione artistica, inclusi appunti tutti quei formati come cataloghi, brochure e manifesti che sono il pane quotidiano dei graphic designer. Si è dunque sviluppato un certo terreno di dialogo fra gli attori del mondo dell’arte e i graphic designer, i quali ultimi hanno mostrato un progressivo assorbimento di attitudini e concetti derivati proprio dalla elaborazione artistica – come per esempio testimonia la circolazione anche nella comunicazione del design di termini come “relazionale”, “collaborativo”, “performativo”, e naturalmente “curatoriale”. Lo stesso aumento di interesse da parte dei graphic designer per il contesto espositivo si può collocare in questo processo, come evidenzia anche il fatto che nelle dichiarazioni e testi di alcuni designer/curatori ricorrono preferibilmente riferimenti a mostre d’arte e alla tradizione curatoriale dell’arte contemporanea. (Emblematici in questo senso sono due cataloghi di mostre di graphic design usciti nel 2012: >Zak Kyes Working with…, Berlin: Sternberg Press, e Wide White Space: The Way Beyond Art a cura di Jon Sueda, Los Angeles: CCA Wattis Institute for Contemporary Arts.)
Ora, se è certamente importante che i designer che intendono specializzarsi e lavorare al servizio della mediazione e produzione artistica abbiano una comprensione di questo settore, delle sue pratiche, tradizioni e discorsi, questa conoscenza non deve essere confusa per una conoscenza del mezzo espositivo e delle sue potenzialità, che sono ben più articolate ed estese. La curatela e l’exhibition making artistici non esauriscono infatti tutte le possibilità d’uso del formato espositivo. E da questo punto di vista, lo studio e la riappropriazione critica della più ampia storia ed evoluzione dell’exhibition design potrebbe essere una direzione da percorrere da parte di quei designer che oggi vogliono comunicare attraverso le mostre.