Crafting Design in Italy

2015-10-06 - Maddalena Dalla Mura

Catharine Rossi, storica inglese del design, esamina il ruolo centrale che l’artigianato ha avuto nella formazione e nello sviluppo del design italiano fra gli anni cinquanta e ottanta dello scorso secolo.

Catharine Rossi, Crafting Design in Italy, from post-war to postmodernism, Manchester University Press, 2015, 220 pp., ill.: 43 b&n e 19 col. Cartonato, GBP£ 70.00. ISBN: 978-0-7190-8940-4.

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La persistenza dell’artigianato e degli artigiani accanto a designer e imprenditori in Italia è stata spesso notata da protagonisti e commentatori del design italiano che l’hanno considerata ora un ostacolo alla affermazione e definizione della identità della cultura del progetto in senso industriale, ora come una opportunità di affermazione culturale ed economica – un refrain, quest’ultimo, che è stato variamente espresso fin dall’affermarsi del discorso post-industriale negli anni ottanta, poi con il riconoscimento del sistema produttivo dei distretti, formati da piccoli e medi laboratori e aziende, infine, più recentemente, con la ondata di dichiarazioni a proposito della lunga tradizione di arti e mestieri italiana, che ha accompagnato il diffondersi del movimento dei makers.

Dal lato degli studi storici del design, benché siano state aperte alcune finestre sul coinvolgimento di singoli designer con l’artigianato o sulle loro collaborazioni con artigiani, e siano apparse, negli ultimi decenni, alcune ricerche sull’intreccio artigianato-design letto attraverso le questioni di genere – da parte di autrici come Penny Sparke e Anty Pansera, in particolare – mancava finora un esame approfondito e comprensivo del variegato ruolo che l’artigianato ha svolto all’interno della pratica e cultura del design italiane. Un gap che la storica inglese Catharine Rossi con il suo libro Crafting Design in Italy (elaborato a partire dalla ricerca di dottorato che ha condotto al Royal College of Art e Victoria and Albert Museum, fra 2008 e 2011) intende iniziare a colmare. Rossi lo fa concentrandosi sul periodo che va dal dopoguerra all’inizio degli anni ottanta – dunque dal definirsi di una cultura moderna del design all’emergere del postmoderno – e in particolare sul settore del design di arredo e prodotto, così come si è sviluppato grazie al contributo, principalmente, di architetti attivi a Milano, o che gravitavano attorno a questa città.

Per entrare in questa vicenda apparentemente già nota, Rossi si equipaggia con una interpretazione inclusiva e ampia di artigianato, che deriva in particolare dal consistente lavoro di Glenn Adamson (fra l’altro suo supervisore di tesi) il quale negli anni recenti, con Thinking Through Craft (Berg, 2007) e The Invention of Craft (Bloomsbury, 2013) ha contribuito ad avanzare la teoria dell’artigianato nel contesto della società industriale (modern craft). Anziché guardare all’artigianato seguendo specifiche tipologie produttive, Rossi esplora l’artigianato come ‘approccio, attitudine e modalità di azione’. Allo stesso tempo, l’autrice tiene conto della peculiare concezione dell’artigianato rintracciabile in Italia. In questo paese, osserva Rossi (riprendendo anche dichiarazioni di Andrea Branzi), la contrapposizione ideologica ed etica fra artigianato e industria, storicamente diffusa nei paesi anglosassoni con il movimento Arts&Crafts, non ha preso piede. Viceversa è stata la separazione/contrapposizione fra lavoro manuale e intellettuale – originata nel Rinascimento – a improntare il dibattito sull’artigianato nonché il rapporto artigianato-design, collocando il primo termine in posizione servile rispetto al secondo. Ed è proprio questa posizione che Rossi prende in esame attraverso i 4 capitoli del libro, che illustrano altrettanti decenni cruciali del design italiano e della mutevole ma costante relazione degli architetti/designer con l’artigianato inteso, quest’ultimo, sia come abile produzione manuale svolta in piccoli laboratori e come materiali e processi su cui i progettisti hanno fatto affidamento per realizzare le loro idee, sia come una serie di qualità e concetti che i designer, nel definire la loro posizione, hanno ora abbracciato e cercato di orientare, ora rigettato.

Ri-articolando ed ampliando l’analisi già svolta da Penny Sparke nel suo famoso (almeno in ambito anglosassone) articolo “The Straw Donkey” (1998; si veda la traduzione italiana “L’asino di paglia” in AIS/Design. Storia e Ricerche), il primo capitolo si concentra su varie attività promozionali ed espositive organizzate negli Stati Uniti all’inizio degli anni cinquanta a sostegno delle produzioni manifatturiere italiane: iniziative che rivelano la presenza problematica dell’artigianato negli anni formativi della moderna cultura del design della penisola. Sebbene l’artigianato venisse riconosciuto generalmente come una risorsa che poteva coesistere con l’industria, i prodotti artigianali (in specie quelli non “artistici”) rappresentavano una questione irrisolta dal punto di vista del gusto: un problema che varie figure ritenevano si dovesse affrontare offrendo un orientamento alle maestranze. Il parere sulla direzione da prendere, tuttavia, variava: dalla opinione degli esperti di marketing in America che, per soddisfare la loro clientela, richiedevano stili tradizionali e motivi stereotipi, a quella di progettisti come Gio Ponti che invece giudicava necessaria la guida degli architetti italiani per spingere la produzione artigiana verso un linguaggio aggiornato e moderno. Negli stessi anni, d’altra parte, progettisti e promotori erano attratti dalla presunta “autenticità” dell’artigianato così come della architettura vernacolare – documentata per esempio nella mostra Architettura spontanea alla XI Triennale –  nelle quali vedevano una sorta di “alterità” con cui confrontarsi.

La “supplementarità” dell’artigianato rispetto al design – un concetto derivato da Adamson che  lo ha discusso, invece, in relazione all’arte – viene particolarmente discussa nel secondo capitolo, in cui Rossi approfondisce il modo in cui la produzione artigiana fosse considerata dai progettisti italiani, allo stesso tempo, una risorsa sicura ma anche qualcosa da negare. La storia della Superleggera di Gio Ponti apre il capitolo. Rossi tuttavia non si ferma alla versione più nota della vicenda – al ruolo svolto dalle maestranze artigiane nella realizzazione della sedia – bensì sviscera gli atteggiamenti contraddittori dello stesso Ponti che, mentre da un lato certamente riconosceva l’importanza della manodopera artigiana dall’altro lato non faceva menzione ovvero nascondeva il suo debito verso la tradizione (sia pur “inventata”) della sedia di Chiavari, di per sé già leggerissima.
L’autrice esamina poi altre singole storie produttive accanto a più ampie iniziative intraprese in Brianza, per illustrare più approfonditamente l’importanza della collaborazione architetti/artigiani negli anni cinquanta. Alcuni progetti ideati per il premio della Selettiva di Cantù e la sedia Margherita progettata da Franco Albini sono esaminati come casi esemplari di collaborazioni problematiche o andate a buon fine. A proposito della seduta di Albini, Rossi mette a confronto un disegno annotato e sporco e un disegno progettuale, rivelando la presenza di uno scambio silenzioso ma fruttuoso fra le competenze del progettista e dell’artigiano (tacit knowledge). Sfortunatamente il fatto che i due fogli siano presentati in due parti diverse del volume – in una tavola colorata a parte, lo schizzo, e vicino al testo, in bianco e nero, il disegno tecnico – limita la “lettura” delle immagini. E va notato che in generale nel libro le immagini svolgono una funzione illustrativa piuttosto che documentale. Nella parte finale del capitolo l’autrice considera più ampiamente la questione dell’incontro/confronto fra cultura degli architetti e cultura degli artigiani, discutendo vari cambiamenti intercorsi nei programmi educativi previsti al Politecnico di Milano e alla Scuola di arti applicate per l’industria di Cantù. L’insistenza sulla produzione, da un lato, e sul disegno dall’altro, denotano secondo Rossi il tentativo di avvicinare le due culture. Uno sforzo manifestato anche in alcune iniziative come conferenze e dibattiti che furono organizzati all’epoca.

Diversamente dalla tendenza alla interpretazione uniformante e riduttiva, cui ci hanno abituati vari libri, Rossi chiaramente intende proporre una lettura contrastata degli eventi, e punta a fare emergere le contraddizioni piuttosto che le concordanze. Nel fare questo, l’autrice costruisce abilmente i suoi capitoli attorno a periodi di trasformazione. Questa strategia diventa particolarmente evidente nel terzo e quarto capitolo, dedicati rispettivamente al periodo fra fine anni cinquanta e inizio sessanta – quando l’affermarsi del consumismo e il riconoscimento internazionale della linea italiana sono presto accompagnati da segni di crisi e critica – e al periodo fra inizio anni settanta e inizio anni ottanta – ovvero la transizione dalla seconda ondata del radical design all’emergere delle pratiche relativamente disimpegnate del postmoderno. In tutti questi momenti di trasformazione, sostiene Rossi, l’artigianato è rimasto presente accanto agli architetti, rappresentando per alcuni un partner per altri una dimensione da cui allontanarsi.

L’analisi della contraddittoria situazione della produzione vetraria di Murano fra anni cinquanta e sessanta – con cui si apre il terzo capitolo – è strumentale a introdurre una serie di concetti associati a quello di artigianato (come rarità, identità e luogo, kitsch e lusso) ai quali Rossi appoggia la discussione, nei paragrafi successivi, degli opposti utilizzi di certi materiali e processi produttivi da parte degli architetti: da un lato per soddisfare la mania del lusso, dilagante in Italia e a livello internazionale, dall’altro lato proprio per contrapporsi a tale deriva. Un materiale tradizionale come il marmo di Carrara, tuttavia, nonostante i tentativi – per esempio di Enzo Mari – di piegarlo verso utilizzi meno decorativi e più funzionali e verso metodi di produzione più industriali, non poteva sfuggire all’elitarismo imposto dagli alti costi produttivi e dalla inevitabile “piccola serie”. Fu invece un materiale non tradizionale come le plastiche, con la loro qualità camaleontica di incarnare il lusso così come il dozzinale, a offrire ad alcuni designer una possibile strada alternativa, come esemplificato dall’esplorazione che Ettore Sottsass fece dell’estetica del kitsch e dell’imperfezione, specialmente attraverso l’utilizzo del laminato plastico – il quale, tuttavia, per essere assemblato richiedeva ancora una volta il ricorso all’abile manodopera artigiana.

Il capitolo quarto inizia esaminando il ruolo che l’artigianato ebbe nella seconda ondata del radical design a inizio anni settanta. Pur con differenze, la “Proposta per un’autoprogettazione” di Enzo Mari, la “tecnologia povera” di Riccardo Dalisi e i laboratori di Global Tools erano tutti accomunati dalla volontà di sperimentare il “fare” (making) e gli strumenti/utensili produttivi come chiave di accesso per una pratica creativa liberatoria. Allo stesso tempo, tuttavia, questi progettisti cercavano anche di redimere o liberarsi dall’insieme di valori socio-culturali che artigianato, mestieri e strumenti avevano accumulato lungo la storia umana. Nella seconda parte del capitolo Rossi segue le tracce di tali approcci così come filtrarono nelle pratiche e strategie produttive di Alchimia, prima, e di Memphis, divenendo inoltre centrali nella teorizzazione che Andrea Branzi ha fatto fin dagli anni ottanta del “nuovo artigianato”, postulando la non differenza culturale fra industria e artigianato e la nascita di un “nuovo design” basato su una produzione ibrida. Il capitolo si conclude con gli arredi di Memphis e i vetri di Murano incollati ideati da Sottsass che, pur distanziandosi intenzionalmente dalla tradizione artigianale e dal revivalismo artigiano, dall’altro lato, ancora una volta, non potevano che affidarsi alle abili mani degli artigiani per prendere forma.

Dal moderno al postmoderno, dunque, la presenza dell’artigianato ha contribuito a configurare il design italiano. È questo quel che Rossi racconta nel suo libro, di cui qui sopra offro un resoconto alquanto riduttivo. L’autrice ha infatti composto un volume ricco e approfondito: usando in maniera originale una varietà di fonti primarie e secondarie (incluse conversazioni/interviste personali), Rossi ha scelto e costruito abilmente i suoi casi studio, incessantemente alternando l’analisi rinnovata di storie apparentemente già note con l’esame accurato di episodi meno noti, e sempre arricchendo la interpretazione con numerosi e interessanti concetti tratti da diversi ambiti fra cui, oltre la storia e teoria dell’artigianato, gli studi sul folclore, l’antropologia, la sociologia, gli studi di genere, le teorie letterarie e postcoloniali.

Certamente i confini che Rossi stessa ha dato alla sua ricerca e soprattutto al volume non possono che lasciare il quadro incompleto, come lei stessa dichiara nelle conclusioni dove esprime la speranza che altri riprendano il suo ‘craft-based approach to design’ (p. 194) per seguire altri interessanti percorsi del design italiano. A tal proposito, tuttavia, mi chiedo se non sarebbe stimolante adottare il suo approccio esaminando non solo un più esteso periodo (cosa che Rossi stessa sta già facendo, in relazione al periodo 1990-2000) ma anche altre aree del design italiano, oltre l’arredamento e gli interni: ambiti come la moda, la grafica o i trasporti, dove, peraltro, non furono così dominati le figure degli architetti. (Nell’introduzione al libro Rossi motiva l’uso del termine “architetti/architects” in relazione ai progettisti da lei considerati spiegando che nel periodo trattato non c’era ancora una facoltà/scuola di design. Tuttavia, a parte l’esistenza in quel periodo di corsi e percorsi formativi dedicati ad aspetti diversi della progettazione, in generale la cultura del design italiana non è stata determinata solo dal lavoro degli architetti.)

Alla luce del rinnovato interesse – non privo di retorica – di cui oggi godono arti e mestieri e artigianato anche in Italia, il libro di Rossi mi sembra soprattutto un invito aperto a riconsiderare il più ampio discorso critico relativo al design che si è sviluppato in questo paese, in specie negli ultimi cinquant’anni, e a riesaminare e misurare le posizioni, oscillazioni e l’impatto degli autori che vi hanno contribuito, includendo sia quanti hanno dichiarato di considerare l’industria un requisito fondamentale del design (per es. il critico Gillo Dorfles che Rossi cita nel suo testo), sia coloro che si sono allineati più o meno esplicitamente con la versione di Branzi per un design senza specificazioni (che oggi sembra trovare diffuso credito), sia, ancora, quanti, a fronte di una fenomenologia molteplice, hanno riformulato, a seconda dell’occasione, la loro lettura del design italiano, ora in relazione all’industria ora in relazione alle arti e mestieri (Renato De Fusco con il suo artidesign mi pare ricada fra questi).

In breve con Crafting Design in Italy Rossi offre a studiosi e studenti non solo una interpretazione originale e sofisticata del design italiano ma anche un riferimento metodologico con cui confrontarsi d’ora in avanti.

[Questo articolo è la versione italiana, modificata, della recensione scritta per il Journal of Design History.]

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