Storia digitale e design / 3 – Design digitale

2016-02-20 - Maddalena Dalla Mura

Concludevo il precedente post dedicato alla storia digitale del graphic design, riprendendo le parole di Catharine de Smet, secondo cui per affrontare la condizione di invisibilità della grafica, dal punto di vista della conservazione e della valorizzazione, sono necessarie una specifica intenzione e la collaborazione di soggetti diversi.

Intenzione e azione sono tanto più necessari di fronte a un’altra grande questione che pende sul graphic design e sulla possibilità stessa di farne la storia e che, laddove non sia affrontata, rischia di trasformare questo campo in un vero fantasma: il graphic design è digitale.

Notoriamente, l’avvento del digitale ha avuto un impatto rivoluzionario sulla produzione del design e da circa trent’anni il graphic design in particolare è sviluppato grazie a strumenti digitali e in certi settori esiste solo in ambiente digitale. Ora, quale storia o quali storie di questo recente passato e del prossimo futuro saranno possibili senza un opportuno investimento per la conservazione e gestione del design nato digitale? Si tratta di un interrogativo che ormai non è più possibile rimandare – del resto abbiamo ormai raggiunto una distanza storica che impone di affrontare e interpretare criticamente questo passato recente.

Naturalmente la sfida può essere compresa in tutta la sua rilevanza e urgenza solo laddove si abbandoni la concezione, un po’ feticista del graphic design come mestiere autoriale legato a doppio filo alla stampa e alla matericità dei supporti e si decida di affrontare e sviscerare le molteplici relazioni e intersezioni, non solo strumentali, che il graphic design intrattiene con tecnologie, supporti e media diversi, con il web, con l’interaction design, con la programmazione.

Su questo fronte quel che è certo è che per via della obsolescenza tecnologica e della mancanza di attenzione, finora, molto è già andato perduto e destinato all’oblio. Anche se, individualmente, i designer oggi adottano diverse soluzioni per conservare i file dei loro progetti – dagli HD alla Cloud, passando per piattaforme come GitHub – i problemi tecnici e concettuali che si pongono richiedono l’impegno e lo sforzo – anche finanziario s’intende – di diversi soggetti, delle istituzioni accanto ai designer, gli archivisti, i ricercatori, gli storici ecc. La strada infatti non è già tracciata ed è necessario sperimentare e dedicare tempo, tanto più nel momento in cui ci si trova ad affrontare il design concepito per esistere solo in formati digitali, in ambienti interattivi e dinamici.

Secondo quali criteri selezionare documenti e materiali oggi in modo da lasciare aperta la possibilità per diversi usi e interrogativi in futuro? Come conservare e proteggere i dati senza alterarli? Come risolvere la questione della instabilità delle tecnologie hardware e software? E come includere, nella conservazione, la esperienza originale o interazione degli utilizzatori? Chiaramente le sole riproduzioni analogiche rischiano di essere incomplete.

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Un’altra impresa relativamente recente del dipartimento Digital & Emerging Media del Cooper-Hewitt National Design Museum è l’acquisizione, nel 2013, della app per iPad Planetary, scritta per il sistema iOS 4.3. e prodotta dall’azienda Bloom. Questa app consentiva di visualizzare la propria musica in forma di sistemi solari, galassie e costellazioni dinamici. Questa acquisizione – che parte dal codice e include tutta una serie di dati e documenti relativi al processo di progettazione e sviluppo del software – è stata intesa dal museo come un caso studio per esplorare e anche speculare in merito a tutte le questioni concettuali, tecniche, legali che si pongono con riferimento alla conservazione e all’utilizzo del design non come un “oggetto” concluso ma piuttosto come un processo che è parte di un sistema vivente di relazioni.

Come hanno scritto Sebastian Chan e Aaron Cope, rispettivamente direttore e Senior Engineer del dipartimento Digital & Emerging Media del Cooper-Hewitt National Design Museum, Smithsonian Institution, ci si trova di fronte a un territorio dove la possibilità di “draw a clean line separating acquired objects, supporting materials and archival content is becoming less and less clear” e dove “[c]ollecting and preserving design – not just the digital elements – but the field as a whole is beginning to resemble the preservation of ‘intangible heritage’”.1

In che modo gli storici del design intendono affrontare questo paesaggio e contribuire alla sperimentazione? Cosa possono portare e cosa possono chiedere?

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Karin van der Heiden, consulente e storica dell’arte olandese, è stata una delle prime e poche persone a impegnarsi sulla questione della conservazione del design born digital. Nel 2006, quando era alla guida di NAGO (Dutch Archives for Graphic Designers), una fondazione che mira a raccogliere e conservare gli archivi di eminenti designer olandesi, van der Heiden ha steso una breve guida rivolta ai designer A concise guide to archiving for designer illustrando dieci consigli per evitare un “disastro archivistico” (la guida è stata poi tradotta in inglese e fatta circolare da AIGA, si veda http://www.aiga.org/archiving-guide/). Nel 2011 ne ha anche realizzato una nuova versione – Save as…: Basic rules for digital preservation – collaborando con Premsela Institute for fashion and design e BNO Dutch Designers Association, ha anche avviato il progetto Bits to Pieces, un sito per documentare l’impatto che la rivoluzione digitale e l’introduzione del computer hanno avuto sulla pratica del design. Ciascuna di queste iniziative è stata sostenuta da una qualche istituzione olandese in anni in cui in questo paese il design e le industrie creative hanno ricevuto una certa attenzione istituzionale e investimenti. Tale condizione tuttavia è molto cambiata negli anni seguenti, e tagli finanziari hanno comportato la riorganizzazione di varie istituzioni culturali. (NAGO è finito dentro il Wim Crouwel Archive e Premsela è confluita nel Nieuwe Instituut.) La mancanza di investimenti e attenzioni continuativi comportano notevoli problemi per la conservazione e valorizzazione del patrimonio culturale, e conducono spesso a dover ricominciare da capo.

(Vedi gli articoli correlati.)

Note

  1. Sebastian Chan e Aaron Cope, “Collecting the present: digital code and collections”, paper presentato alla conferenza annuale Museum and the Web, Baltimore, MD, 2014, accessibile online da http://mw2014.museumsandtheweb.com/.
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