Recentemente sono stata incuriosita dal credito che la storia riceve in un ambito diverso dal design: lo sport. La scorsa primavera, guardando in televisione una partita di calcio fra Juventus e principato di Monaco, la mia attenzione è stata attirata da uno striscione steso dai tifosi monegaschi che invitava, o ingiungeva, ai giocatori: “ÉCRIVEZ L’HISTOIRE” (per la cronaca, la partita è finita 0-0). Qualche mese dopo, nella regione in cui risiedo ha fatto la sua comparsa una imponente campagna abbonamenti di una squadra di calcio locale, l’Udinese, all’insegna del motto “ENTRA NELLA STORIA”.
Alla base di questi slogan c’è, evidentemente, l’idea che fare e scrivere la storia – anzi, La Storia – coincidano con l’agire dei protagonisti, possibilmente dei vincitori, o quanto meno con l’assistere alle loro imprese. Insomma è la storia delle res gestae e dei grandi eventi. E, se ci trasferissimo al design – dove, peraltro, la dimensione agonistica non è centrale ma certamente non assente – sarebbe come individuarne la storia nella performance dei designer e nei loro prodotti di successo – suona familiare? A ogni modo, quelli menzionati non sono gli unici né i più interessanti segnali del mondo dello sport rispetto ai quali è interessante fermarsi per riflettere.
Come ho scoperto qualche tempo dopo, proprio quest’anno (2015) è stato pubblicato un volume dal titolo Sport history in the digital era. Curato da Gary Osmond e Murray G. Phillips, e pubblicato dalla University of Illinois Press, questo libro esamina e discute, attraverso diversi contributi, i cambiamenti e le sfide concettuali, metodologiche e pratiche che gli storici dello sport devono affrontare nell’era digitale. Oltre a una disamina delle resistenze che persistono attorno alla storia digitale – che i curatori attribuiscono principalmente, sia pure non esclusivamente, a una “philosophical objection [that] revolves around the relationship between the past and the present and what constitutes legitimate historical study” – il volume include saggi che affrontano aspetti diversi come i problemi che gli archivi istituzionali incontrano nella produzione, uso e offerta di risorse digitali; le opportunità che possono venire dal coniugare metodologie quantitative e qualitative al fine di porre nuovi interrogativi o aprire diversi filoni di indagine; l’utilizzo di risorse online e social media per lo studio e la ricerca ma anche l’insegnamento; le continuità e discontinuità, più in generale, della storia digitale rispetto alla storia tradizionale dello sport. In breve, il libro si inserisce nel campo di studi ed esperienze che riguardano la storia nell’era digital o storia digitale e più estesamente nel dibattito sulle cosiddette digital humanities, ovvero sull’interazione delle discipline storico-letterarie con le tecnologie informatiche.
Di fronte a questo libro di storia dello sport merita fermarsi per gettare uno sguardo comparativo nella direzione del design. E diciamo subito che quel che si vede non è confortante.
Nonostante negli ultimi anni la letteratura di storia del design sia cresciuta, non solo con ricerche e interpretazioni di vicende specifiche e repertori, ma anche con opere di sistemazione e riflessione su questioni metodologiche (si vedano, in particolare ambito anglosassone, i vari volumi tematici e le antologie pubblicate da Berg, prima, e poi da Bloomsbury Publishing), la questione del digitale sembra essere stata trascurata. Certamente, qualcosa è stato fatto sui temi della conservazione e della valorizzazione di fonti e documenti del design nell’ambiente digitale (si vedano alcuni contributi in Design & cultural heritage, pubblicata da Electa nel 2013, opera coordinata da Fulvio Irace che raccoglie gli esiti di un consistente progetto di ricerca PRIN dedicato al tema “Il design del patrimonio culturale tra storia, memoria e conoscenza. L’immateriale, il virtuale, l’interattivo come materia di progetto nel temo della crisi”), ma questi temi solo in parte esauriscono le questioni propriamente storiografiche.
Questa carenza della storiografia del design appare tanto più stupefacente, e anche preoccupante, per due ragioni. La prima è che l’ambito d’indagine della storia del design è non solo un settore e un fenomeno che, come altri, viene mediato, veicolato e discusso attraverso le tecnologie digitali ma è esso stesso digitale: da almeno da tre decenni, viene elaborato e prodotto proprio grazie alle tecnologie digitali e, in certe manifestazioni, esiste ed è accessibile ed esperibile solo in ambiente digitale. L’altra ragione è che proprio il design – in specie della comunicazione e dell’interazione – è ritenuto avere un ruolo centrale per la sperimentazione e lo sviluppo delle digital humanities (e si veda in merito il volume di Anne Burdick, Johanna Drucker, Peter Lunenfeld, Todd Presner, and Jeffrey Schnapp, Digital_Humanities, Cambridge, MA: MIT Press, 2012). Certamente per avventurarsi nel territorio della storia digitale gli interessi e le competenze di storici e designer dovranno saldarsi con particolare decisione.
La domanda da porsi, appunto, è: storici del design e designer sono pronti o interessati ad affrontare questa sfida? L’impressione è che non lo siano, non ancora. Un caso eloquente è quello del graphic design. In questo ambito il digitale ha avuto un impatto prima e più diffusamente che in altri settori progettuali, e la storia di questo impatto e dei suoi sviluppi ormai preme per essere affrontata. Inoltre, come è noto, l’elaborazione storica del graphic design è stata e continua a essere svolta non soltanto da storici “puri” ma dai designer stessi, e questa situazione parrebbe ideale per favorire l’incontro di competenze richiesto dall’umanistica digitale. Eppure i segnali che vengono da graphic designer e storici della grafica non sembrano incoraggianti.
Due anni fa la conferenza Graphic design: history and practice che ho avuto l’opportunità di organizzare con altri colleghi a Bolzano (gli atti sono in corso di preparazione), ha offerto spunti di riflessione interessanti su questa situazione. Durante la conferenza, che poneva al centro la relazione fra pratica del design e della storiografia, la questione del digitale è stata toccata, sia pure parzialmente. Nel panel del mattino, per esempio, Esther Cleven ha parlato dell’utilizzo di alcune installazioni nell’allora Graphic Design Museum di Breda (poi Museum of the Image) come modalità per offrire al pubblico accesso agli archivi digitali relativi ai graphic designer olandesi, e durante la successiva discussione si è brevemente parlato di giornalismo e scrittura sul web. Ma è stato nel pomeriggio che il digitale è stato messo sul tavolo. Nel suo intervento intitolato “Changing attitudes to graphic design history in the digital age”, Adrian Shaughnessy ha tratteggiato la situazione attuale come una condizione nella quale le tecnologie digitali rendono “the past” (che però, dobbiamo notare, non è la stessa cosa che “history”) più accessibile, come dimostra la disponibilità di un oceano di immagini e materiali attraverso il web – su questo punto si è soffermato anche Mario Piazza, che ha parlato di una mood board apparentemente infinita e sempre disponibile di fronte ai designer. Dall’altro lato, tuttavia, Shaughnessy ha anche evidenziato come la “new appreciation and understanding of design’s past” da parte dei giovani graphic designer si esprima in un disinteresse e allontanamento rispetto al più commerciale design per il digitale e per i nuovi media e in un ripiegamento verso forme di creatività e produzione del passato, in cerca di una autenticità e di un’ideale concezione del designer come “individual creator”.
Da un’altra prospettiva, quella della trasmissione della conoscenza come pratica culturale, Annick Lantenois ha svolto alcune considerazioni sul fare e scrivere storia in relazione alle nuove tecnologie. Lantenois ha insistito sulla necessità di affrontare nuove modalità di scrittura, presentazione e fruizione della storia – oltre il libro – superando le compartimentazioni fra teoria e pratica e sperimentando collaborazioni fra storici/teorici e designer e programmatori. Di questo genere di collaborazioni/sperimentazioni ha anche offerto un esempio concreto da lei avviato nella scuola in cui insegna, ma ne ha anche esposto, con onestà, il fallimento, imputandolo soprattutto allo storico, cioè lei stessa, sollevando dunque l’interrogativo sulla effettiva preparazione e disposizione degli storici verso la esplorazione di nuove forme di produzione e trasmissione della conoscenza.
Se, come questi interventi raccontano, storici e designer non sembrano essere molto pronti o interessati alle sfide della storia digitale e delle digital humanities, quel che mi pare importante fare è aprire e tenere aperta una finestra su questi temi. Da parte mia, muovendomi per la prima volta in questo terreno, cercherò, da qui in avanti, di segnalare e indicare questioni e riferimenti che potrebbe essere utile cominciare a considerare se si vuole entrare nella storia del design nell’era digitale.
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