Lunga vita al poster? Lunga vita al graphic design

2016-06-06 - Maddalena Dalla Mura

Di fronte a una mostra di manifesti contemporanei (come Formes de l’affiche, organizzata presso la fondazione Bevilacqua La Masa a Venezia*) si possono dire molte cose e avanzare vari interrogativi, molti dei quali puntano, in definitiva, nella stessa direzione: “ma ha senso?”.

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In effetti, se non è morto – nonostante i numerosi annunci – il manifesto è quanto meno un medium residuale, avendo perduto da decenni, in favore di altri supporti, la sua centralità come strumento di comunicazione al pubblico e nello spazio pubblico.1 Notoriamente, d’altra parte, il manifesto è rimasto un formato e supporto molto amato dai grafici, che lo hanno tenuto in vita come luogo di enunciazione personale e di espressione autoriale, come spazio di esercizio e sperimentazione del proprio vocabolario formale e come occasione di riflessione (per esempio su grandi questioni sociali e politiche) o di autoriflessione (per esempio sui processi e tecniche del loro mestiere, anche in chiave oppositiva rispetto al panorama digitale e multimediale). Come è stato più volte notato, insomma, il manifesto continua ad avere vita lunga – sebbene circoscritta – principalmente per il suo valore simbolico e le sue qualità artistiche.2
Oltre che auto-prodotto dai designer stessi per un circuito di pari e collezionisti, il manifesto è del resto ancora alimentato anche dal felice incontro dei designer con una certa committenza dei settori culturale e artistico, la cui economia fa perno attorno al capitale d’immagine e la cui fetta di pubblico si riconosce in una koiné sofisticata. È in questa cornice che si collocano i poster presentati in questa mostra, pezzi molto particolari, nati specificamente per il Festival de l’affiche et du graphisme di Chaumont, la manifestazione che dal 1990 si tiene annualmente nella cittadina dell’Alta Marna e che comprende un concorso internazionale dedicato al manifesto e varie iniziative collaterali.3

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Alcuni di questi manifesti sono stati commissionati per comunicare il Festival stesso, altri sono stati richiesti ai designer appositamente per essere presentati in mostre ed eventi organizzati al suo interno. Quelli esposti sono dunque oggetti la cui ragione d’esistere e la cui vita pubblica si sono giocate tutte in uno stretto giro, attorno a un’iniziativa il cui scopo è, appunto, la promozione del manifesto e del graphic design: insomma, grafica per grafici.
Certamente ci si può interrogare sulla rilevanza del manifesto nel quadro della comunicazione e della vita sociale contemporanee, e specificamente di manifesti destinati ai muri delle gallerie più che alla strada.4 Si può anche discutere della rappresentatività del manifesto rispetto ai molteplici ambiti di intervento del graphic design e del senso di dedicare energie e investimenti a coltivarlo e produrlo. Sarei tentata di farlo, ma so già che le mie punte critiche finirebbero per essere presto disarmate dal piacere provocato da quelle caramelle-per-gli-occhi che sono i lavori selezionati per Forme de l’affiche, di fronte alle invenzioni dei designer: la singolarità del loro archivio di segni (M/M Paris, Jan en Randoald, tanto per citare due esempi), il dialogo che intrattengono con la cultura visiva che ci circonda, intriso di citazioni e commenti (Mathias Schweizer, Jean-Marc Ballée, Loulou Picasso, Thomas Bizzarri e Alain Rodriguez), l’esperta variazione condotta sugli elementi della tradizione grafica e della stampa (Norm, Michiel Schuurman, Olivier Lebrun), la ricchezza di soluzioni tipografiche (Toffe, Frédéric Tacer), l’apparenza casuale di un equilibrio compositivo abilmente raggiunto (Christophe Gaudard). Ebbene sì, d’accordo, lunga vita al manifesto!

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Ma, poi, a pensarci bene, cosa è questa lunga vita? E fino a che punto è anche vita del graphic design? In effetti questa mostra offre l’occasione per provare a spostare l’attenzione su un’altra questione che pure dovrebbe interessare molto coloro che si occupano di produrre e promuovere grafica, i designer in primis: non già se il manifesto – o qualunque altra tipologia – sia sufficientemente rappresentativo della grafica contemporanea, ma piuttosto se, come oggetto e supporto, possa da solo offrire una rappresentazione completa e duratura del progetto grafico e della sua esistenza. Io credo che non possa farlo.
Prendiamo il caso di Chaumont. Le origini del Festival sono legate all’esistenza di una collezione storica di manifesti, lasciata nel 1905 alla cittadina dell’Alta Marna, insieme ad altri materiali, dal parlamentare Gustave Dutailly.5 È precisamente con l’obiettivo di valorizzare e accrescere con pezzi contemporanei questa collezione che a inizio anni novanta è stato istituito il Festival de l’affiche. In seguito, già alla metà dello stesso decennio, la missione del Festival è stata estesa a comprendere più ampiamente la “grafica” (et du graphisme); così, se pure il manifesto mantiene ancora una posizione centrale e il concorso rimane riservato ad esso,6 gli eventi del Festival e le altre attività del Centre international du graphisme (CIG) – esposizioni, laboratori, conferenze, residenze e pubblicazioni – mirano ad avere uno spettro più inclusivo. Di fatto, in un quarto di secolo, queste istituzioni hanno dimostrato di essere capaci di attirare, produrre e raccogliere una considerevole quantità di poster e altri materiali a stampa. Si parla di oltre 40.000 pezzi, destinati a essere a essere conservati e catalogati, e a veder estendere la loro vita pubblica grazie a periodiche presentazioni in mostre e pubblicazioni.7 Tutti questi materiali sono non solo opere (multipli, per lo più) da apprezzare in sé, ma anche documenti che testimoniano e rendono disponibile per studi e analisi future sia la storia e l’attività del Festival sia gli sviluppi di una parte della grafica contemporanea e della produzione di alcuni designer in particolare.
Di fronte a questo notevole patrimonio sorge, però, un problema, almeno dal punto di vista del progetto grafico: quand’anche questo genere di materiali vengano conservati ed eventualmente resi disponibili per lo studio, essi potranno fornire solo una documentazione parziale del progetto e della sua vita, della sua origine, produzione e diffusione. Effettivamente, se è un limite confondere affiche e graphisme, è anche rischioso confondere il prodotto finito per il progetto grafico, la raccolta dell’uno per la documentazione dell’altro.
È quasi ironico pensare, per esempio, che il concorso di Chaumont è nato in un periodo in cui la progettazione grafica si stava trasferendo al computer: da allora, mentre i manifesti raccolti fisicamente ogni anno sono destinati a essere progressivamente digitalizzati, a quanto pare non vengono invece richiesti ai designer, e conservati, i file digitali di progetto, per non dire di informazioni dettagliate relative alla committenza, allo sviluppo del lavoro, ed eventuali fotografie che testimonino la vita analogica dei loro lavori. Mentre per pezzi storici come quelli della collezione Dutailly recuperare oggi i disegni e materiali di progetto e testimonianze della loro esistenza nello spazio pubblico può essere arduo, per quanto riguarda la produzione contemporanea è invece possibile – e avrebbe molto senso – porre in origine un’attenzione specifica e costante a raccogliere, accanto alle “opere”, anche tutto quello che può servire a studiarne la storia progettuale. Tanto più senso ha farlo allorché l’istituzione che si dedica a collezionare i materiali è la stessa che, in vari casi, ne commissiona e provoca la creazione e produzione o comunque mantiene contatti diretti con i progettisti.
È chiaro che la “mancanza” di simili pratiche si deve a varie ragioni e cause, alcune delle quali sono strettamente tecniche ed economiche. Ma si tratta anche di una questione di visione e prospettiva, nella quale si può leggere una duplice ossessione per l’oggetto-feticcio (che nel caso del manifesto è alquanto tipica, ma riguarda anche altri supporti a stampa). Da un lato, c’è l’istituzione che segue un approccio di tipo “museale” – mettendo al centro l’oggetto/opera – piuttosto che perseguire una prospettiva di tipo “archivistico” – più orientata alla completezza documentale. Dall’altro lato, c’è una certa tendenza dei designer (alimentata negli ultimi anni dalla cultura dell’auto-produzione) a controllare e gestire la propria immagine e l’interpretazione del loro lavoro, per cui il progetto finisce con il prodotto e con la rappresentazione che essi intendono darne.
Ora, per tornare ai quesiti iniziali, se manifestazioni e istituzioni come quelle di Chaumont hanno senso per la cultura del graphic design, credo che questo possa essere trovato impegnandosi non soltanto nel sostenere la produzione hic et nunc di nuovi lavori ma proprio in un’operazione di sperimentazione, sensibilizzazione (dei designer stessi) e riflessione sulla lunga vita del progetto grafico: una vita che può essere garantita solo predisponendo adeguatamente tutti i documenti utili a interrogarla e interpretarla in futuro. Mostre come questa presentata alla Fondazione Bevilacqua La Masa sono come piccole macchine del tempo, preziose selezioni di segni e tracce, punti di partenza per molteplici possibili analisi e narrazioni che richiedono però altri documenti, altri spazi, altre occasioni per essere elaborate.
In conclusione, la pausa di riflessione che il Festival ha preso quest’anno, in vista dell’apertura della nuova sede del CIG, mi pare possa essere guardata come un segnale positivo, come l’occasione che questa istituzione ha per ri-articolare la propria missione con maggiore decisione verso la cultura del graphisme e non solo dell’affiche.

* Questo testo è la versione italiana del testo “Long live the poster? Long live graphic design” pubblicato nel catalogo della mostra “Formes de l’affiche”, a cura di Eric Aubert e Giorgio Camuffo, Venezia: Bruno, 2016, in occasione della mostra con lo stesso titolo organizzata presso la Fondazione Bevilacqua La Masa, 26.05 -04.09.2016.

Note

  1. Per una storia del poster si veda il recente libro di Elizabeth Guffey, Posters: A Global History, London: Reaktion Books, 2015.
  2. Per una storia del poster si veda il recente libro di Elizabeth Guffey, Posters: A Global History, London: Reaktion Books, 2015.
  3. Si veda il breve testo di Andrew Blauvelt, “The Persistence of Posters”, in Graphic Design: Now in Production, catalogo della mostra, a cura di Andrew Blauvelt e Ellen Lupton, Minneapolis: Walker Art Center, 2011, pp. 92-93.
  4. Nel 2016, tuttavia, per consentire agli organizzatori di concentrarsi sull’apertura della nuova sede del Centre International du Graphisme, il Festival non si tiene. L’evento dovrebbe riprendere regolarmente dal 2017, con la ventisettesima edizione.
  5. Sull’interesse e coinvolgimento dei graphic designer contemporanei nelle attività espositive si veda il testo di Peter Bil’ak per la mostra da lui organizzata a Brno nel 2006, Graphic Design in the White Cube. Sulla tendenza dei designer a produrre i propri poster si vedano anche i commenti di Alice Twemlow dopo la sua esperienza come membro della giuria internazionale del concorso di Chaumont, nel suo articolo “When Did Posters Become Such Wallflowers?”, designobserver.com, 29 giugno 2007. Cfr. inoltre Giorgio Camuffo e Maddalena Dalla Mura (a cura di), Graphic Design, Exhibiting, Curating, Bolzano: bu,press, 2013. Viceversa per l’uso recente del poster fuori dalla cerchia dei designer si veda l’articolo di Rick Poynor, “Why the Activist Poster is Here to Stay”, designobserver, 15 settembre 2012, e Guffey, Posters, cit. (L’ultimo accesso a tutti gli articoli online qui citati risale al 4 maggio 2016.)
  6. Per la storia del Festival si veda il sito del CIG. Sulle collezioni cfr. anche Jöel Moris, “La Maison du livre et de l’affiche de Chaumont: Aux origines des collections”, Collections singulières, dossier BBF, 4, 2007, pp. 61-63, disponibile online.
  7. Solo per le edizioni 2011 e 2012 anche il premio internazionale è stato modificato per includere le manifestazioni della grafica nei diversi media. Ma dal 2013 il concorso è tornato a concentrarsi sul manifesto.
  8. Il sito del CIG parla di 40.000 pezzi contemporanei che si aggiungono ai 5000 manifesti della collezione storica. Uno studio recente condotto sulle pratiche di digitalizzazione di tre collezioni, inclusa quella di Chaumont, riferisce che qui sono conservati circa 48.000 affiches, di cui 3000 sono già disponibili attraverso la base dati Flora; Emmanuelle Chevry Pébayle e Simona De Iulio, “Les collections d’affiches publicitaires numérisées: entre construction de l’offre et appropriations”, Les Enjeux de l’Information et de la Communication, 16/2, 2015, pp. 41-52, disponibile online.
    Per quanto riguarda l’accesso online del catalogo, attualmente non esiste una base dati dedicata e il catalogo è ospitato da e accessibile tramite il catalogo della Mediateca di Chaumont: http://silos.ville-chaumont.fr/flora/jsp/index2.jsp. Il catalogo è anche reso disponibile attraverso la banca dati Gallica della Bibliothèque nationale de France: http://gallica.bnf.fr/.
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