Graphic design, esporre, curare / 6 – Non esporre?

2016-06-03 - Maddalena Dalla Mura

Se fino a tempi recenti qualcuno può aver temuto che l’esposizione del design privi quest’ultimo del suo significato e valore, rischiando di limitarne la comprensione, oggi ci si potrebbe chiedere se non si stia raggiungendo il polo opposto, ovvero una fase in cui è il senso dell’esporre e dell’apparato espositivo a essere privato di significato, o almeno frainteso nelle sue qualità specifiche, in virtù del design (per il design).
Nel 2013 oncurating – una rivista online molto interessante, promossa dalla Zurich University of the Arts e dedicata alle pratiche e teorie curatoriali – ha dedicato un numero al tema “Design Exhibited”, il design esposto. Fra i contenuti della rivista c’era una riflessione sulla mostra come medium di produzione – “The exhibition as a medium of production” – una conversazione fra Sarah Owens, designer della comunicazione e teorica del design, e Urs Lehni, graphic designer svizzero, molto attivo nei settori culturale e artistico e, fra altre cose, fondatore dello studio Lehni-Trueb, di Rollo Press e dello spazio culturale Corner College a Zurigo.
In questa conversazione, Owens e Lehni discutono varie questioni relative all’esposizione del design e specificamente quelle che riguardano la presentazione del graphic design nel contesto espositivo. Facendo riferimento ad alcuni casi di mostre di grafica realizzate all’interno di spazi museali, centri culturali e nell’ambito di eventi temporanei, i due riflettono sui diversi tipi di esperienze che vengono offerte ai visitatori sull’impatto che simili iniziative possono avere, e sul genere di discorsi che sono in grado, o meno, di attivare e diffondere. La lettura di questo testo è interessante. Qui vorrei soffermarmi su un passaggio in particolare.
All’inizio, Lehni racconta che quando gli venne conferito, qualche anno fa, il premio INFORM da parte del Museo di arte contemporanea di Lipsia, gli venne anche prospettata la possibilità di realizzare una mostra del suo lavoro: non era un obbligo – “There was no obligation to produce an exhibition” – spiega Lehni, tuttavia coloro che lo avevano preceduto, altri grafici che avevano ricevuto lo stesso premio – ultimo fra questi, Zak Kyes – avevano deciso di farla (si veda la mostra Zak Kyes Working With… e la presentazione del progetto fatta dallo stesso Kyes in occasione della successiva tappa a Chicago). A parte esprimere la sua personale opinione in merito all’approccio “eccessivamente intellettuale” (“overly intellectual”) e referenziale della mostra di Kyes, Lehni racconta come nel suo caso, dopo aver valutato la ipotesi della mostra, egli ha deciso infine di fare qualcosa di diverso: invece di esporre il suo lavoro, ha proposto di progettare un sito web per il museo (a dire il vero non sono riuscita a sapere se questo progetto abbia avuto seguito).
Ora, senza voler sovra-interpretare le motivazioni personali dei designer citati sopra, e senza voler determinare quale sia la direzione giusta, leggendo questa conversazione mi sono trovata a chiedermi se “non” fare una mostra – o non fare un progetto curatoriale – stia per diventare la prossima espressione estrema di un approccio critico al design…
Scherzi a parte, è chiaro che ogni progetto di comunicazione richiede una riflessione critica in merito agli obiettivi e una valutazione in merito a quali siano i canali, i media, i formati e i contesti appropriati per raggiungerli. Ed è certo che non è obbligatorio fare una mostra.

Curare, Esporre, Grafica, Mostre, Musei