Graphic design, esporre, curare / 5 – Scuole d’esposizione

2016-05-26 - Maddalena Dalla Mura

Le scuole di design hanno certamente un ruolo cruciale nel sostenere e diffondere certe idee e usi del medium espositivo. Chiunque abbia avuto modo di lavorare in una di queste scuole, o di visitarne una, sa bene come la loro vita sia costellata di mostre e pervasa da una febbrile attività espositiva che può arrivare a una forma di ossessione – qualunque occasione diviene opportunità per esporre, e anche i corsi di scrittura creativa pretendono il loro spazio per presentare installazioni di fogli di carta… Esporre significa esistere, e viceversa, si direbbe.
Certamente si comprende che esporre, ovvero presentarsi in pubblico, fa parte delle competenze che le scuole includono nella loro missione formativa: durante e alla fine dei semestri, in conclusione di un workshop, e naturalmente in occasione della discussione delle tesi, agli studenti di design viene generalmente richiesto di progettare e presentare il loro lavoro a colleghi, docenti, parenti, ospiti esterni…
Le sessioni di laurea costituiscono un momento particolare in cui i confini fra progetto ed esposizione possono diventare sfumati, e le idee possono confondersi.
Alla Facoltà di Design e Arti della Libera Università di Bolzano (dove ho avuto la possibilità di collaborare e insegnare negli anni scorsi), gli studenti che intendono laurearsi devono, per esempio, non solo presentare la cosiddetta “docu” – una documentazione a stampa, solitamente, un piccolo libro in cui illustrano il progetto e il processo seguito nello sviluppo della tesi – e un leporello – con immagini del risultato finale – ma devon anche prenotare e allestire uno spazio (solitamente all’interno dell’edificio universitario) in cui esporre il loro progetto e discuterlo davanti alla commissione. Dunque, in aggiunta al progetto stesso – che può essere qualunque cosa, da una giostra per bambini a un prototipo di mobile-cucina, da un paio di occhiali realizzati con stampa 3D a un videodocumentario – i laureandi devono sempre anche ideare e progettare un allestimento o una installazione. (Aggiungo che il piano di studi di questa facoltà include un insegnamento in Interior e Exhibition design).
L’anno in cui stavo svolgendo ricerca sulla relazione tra graphic design, contesto espositivo e pratiche curatoriali, uno studente – Andreas Trenker – ha bussato alla mia porta chiedendomi se poteva raccontarmi la sua tesi, per sentire se avevo qualche commento da fare o spunto da dargli. Andreas era seguito da Giorgio Camuffo come relatore, e da Emanuela De Cecco, critica d’arte, come correlatore.
Durante il nostro incontro, Andreas mi ha raccontato come, spinto da un interesse personale a comprendere meglio le condizioni di vita in zone di guerra, aveva deciso di visitare l’area lungo la striscia di Gaza. La sua visita e permanenza in questa zona era avvenuta proprio dopo la nuova esplosione del conflitto nel novembre del 2012. Nella città di Sderot e nel vicino kibbutz Nir’Am, Andreas aveva avuto la possibilità di incontrare molte persone di differenti età e condizioni sociali, aveva realizzato interviste, scattato foto, e aveva anche sviluppato un progetto in un bunker. Aveva anche preso molti appunti scritti e aveva chiesto ad alcuni insegnanti di far raccogliere su alcuni quaderni i disegni dei bambini, la rappresentazione dei loro sogni e desideri. Rientrato con tutto questo materiale, Andreas, come mi disse, non aveva intenzione di provare a “spiegare” il conflitto… Voleva piuttosto condividere l’esperienza molto personale che aveva fatto, eventualmente cercando, attraverso la sua presentazione, di sollevare riflessioni in altre persone, in merito alla militarizzazione della società israeliana. Ovviamente, come richiesto dalla Facoltà, Andreas avrebbe realizzato un libro di documentazione, una specie di diario del suo percorso. Ciò su cui invece non era ancora arrivato a una soluzione era il progetto e la sua esposizione. Quale era il progetto? E come presentarlo poi con un allestimento?
Mentre lui mi parlava e mostrava i suoi appunti, la mia impressione era che invece lui avesse davanti a sé una opportunità molto chiara: considerata la quantità di materiali diversi raccolti, e i diversi supporti e media usati, e considerata la sua intenzione di comunicare con a un pubblico la sua esperienza, mi sembrava che nel suo caso la mostra avrebbe potuto essere non la mera mediazione di un progetto “altro” ma il progetto stesso. Poteva sembrare una sfumatura, ma si trattava in realtà di considerare in maniera radicalmente diversa il senso della mostra/allestimento nel suo progetto di tesi. Di questo cominciammo a parlare.
Sebbene nelle settimane seguenti io abbia incontrato ancora Andreas nei corridoi, non ho seguito lo sviluppo del suo progetto, che ho visto solo una volta completato, il giorno della discussione della tesi.
Il suo progetto consisteva in un exhibit, una struttura di legno (smontabile e trasportabile) che replicava le esatte dimensioni del bunker in cui era stato. Questa struttura fungeva da supporto per vari materiali e media – testi, foto, libriccini, proiezioni video, e registrazioni audio. Il colore rosso era usato come elemento unificante, un riferimento al segnale d’allarme Tzeva Adom (appunto, colore rosso) usato dalle forze di Difesa israeliana per allertare la popolazione dell’arrivo di attacchi palestinesi – e lo stesso audio del segnale “Tzeva Adom” era periodicamente ripetuto all’esterno dell’installazione. Il progetto di mostra portatile di Andreas ha ricevuto il plauso dei colleghi ed è stato positivamente valutato dalla commissione di laurea.
Ovviamente, non sto rivendicando merito alcuno su questo progetto – Andreas è uno di quegli studenti dotati e determinati a cui non servono molti consigli, e, del resto, aveva anche due attenti supervisori. Semplicemente io gli ho dato – come lui ha scritto nella sua tesi – “einen guten Ratschlag”, un buon consiglio.

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