Graphic design, esporre, curare / 3 – Una tipologia

2016-02-28 - Maddalena Dalla Mura

Mostrare è una modalità per comunicare, per attivare una relazione e la produzione di significati. Spesso gli studenti che si interessano di pratiche espositive e design si chiedono come sia meglio esporre, quali sono le buone e le cattive mostre, o come si “deve” o “dovrebbe” esporre. Concludendo il post precedente, scrivevo che in definitiva organizzare una mostra comporta affrontare alcune domande fondamentali come: perché? per chi? cosa? come? Mentre, chiaramente, non esiste una risposta unica o migliore in assoluto, tornare alle basi, ai fondamenti, può essere utile per orientarsi, per affrontare il progetto di una mostra, così come per comprendere e riflettere sulle mostre che visitiamo.

Una guida importante in questa direzione si può trovare in un testo di Giovanni Anceschi – designer della comunicazione visiva e teorico che più volte si è occupato di fondamenti e del mostrare come comunicazione e come attività registica.
Il testo in questione è “Le strutture ostensive della scena narrativa”, apparso nel 1991 nel catalogo di una mostra dedicata a celebrare trent’anni di Salone del mobile.1 Ragionando di media, spettacolo ed esposizioni, e prendendo spunto dalle ricerche neoretoriche degli anni sessanta, in esso Anceschi avanzava una “tipologia delle forme-mostra” dal punto di vista “comunicazionale”.

Il catalogo di possibilità che Anceschi propone in questa tipologia si fonda sulla definizione di due poli/estremi basati sullo “stile complessivo dell’argomentazione” e del tipo di “intenzione comunicativa” ovvero dell’“effetto previsto o atteso” rispetto ai quali viene declinata una analisi delle mostre secondo diversi aspetti.
Un estremo/polo è quello della trasmissione o della informazione, rappresentato dai sotto-insiemi delle mostre didattiche (che promuovono un certo processo conoscitivo verso il destinatario) e delle mostre puramente informative. L’estremo opposto è invece quello della persuasione, delle mostre che vogliono convincere di qualcosa. Sotto questa categoria ricadono le mostre “agitatorie”, che intendono promuovere una attività specifica e modificare il comportamento delle persone (incluso indurre all’acquisto di qualcosa, per intendersi) e le mostre propagandistiche, che esigono piuttosto che il destinatario si formi una certa idea o valutazione/giudizio delle cose (includendo tanto le grandi esposizioni, rivolte alla massa del pubblico, quanto le mostre esclusive ed elitarie della galleria d’arte). Mentre le mostre informative – aggiunge Anceschi – sono paragonabili a un prodotto editoriale, a una pubblicazione che si rivolge a un lettore che vuole imparare, l’insieme delle mostre persuasorie è piuttosto simile al negozio, dove emittente e destinatario si comportano secondo le logiche della offerta e della domanda.

Nel suo testo Anceschi prosegue esaminando più in dettaglio i diversi aspetti identificativi delle due famiglie di mostre, a partire dai modelli concettuali che le sostengono, per arrivare al ruolo dell’exhibition designer e alle tecniche espositive.
Il modello concettuale presupposto nelle mostre informative è il flusso di informazioni, l’idea della emissione/trasmissione di informazioni attraverso un canale; i contenuti sono centrali, e quel che si espone in mostra – oggetti o testi – ne è semplicemente la metafora. In questo tipo di mostra, il destinatario è visto come un pubblico che riceve passivamente i contenuti, seguendo un percorso che è dato, chiuso, da seguire diligentemente muovendosi come lungo una “stringa”. Un esempio estremo è la mostra composta da una sequenza di pannelli, che prevede e impone una lettura lineare. In questo genere di mostre il designer, osserva Anceschi, si comporta come un traduttore di intenzioni comunicative di partenza, che gli vengono fornite.
Dall’altra parte, il modello concettuale delle mostre di tipo persuasivo è quello della mise en scène: al centro non sono tanto i contenuti e le informazioni ma soprattutto le percezioni e il pubblico. Il destinatario è considerato una componente centrale e costitutiva del processo di comunicazione e il percorso di visita è più libero, con diversi gradi di apertura e apparente casualità. È attraverso le scelte che lo spettatore può fare lungo di esso che nella sua mente si forma l’effetto complessivo, e il processo comunicativo si compie. Dal punto di vista morfologico, se la mostra informativa assomiglia a una stringa, la mostra persuasiva assomiglia piuttosto a una enciclopedia da consultare, oppure una rete o un ipertesto che consente al visitatore di saltare da una impressione all’altra. In questo tipo di mostre, il progettista interviene come un interprete, un regista che attinge a competenze e modi caratteristici dell’universo dello spettacolo per valorizzare l’oggetto e i materiali esposti: mettendo in luce molteplici aspetti dell’oggetto in mostra, prefigurando le possibili viste che ne avrà il visitatore, predisponendo buone inquadrature (eventualmente anche cancellando la “preesistenza dell’espressività architettonica”), il designer costruisce uno story board ideale, definisce il palcoscenico che permette di attivare la “funzione ostenstiva”. All’estremo, questo genere di mostra può attuarsi in uno spazio vuoto “disseminato di apparizioni” fra cui il visitatore si può muovere con fare ludico e curioso, seguendo la suggestione di oggetti, informazioni e sensazioni, fino al limite di “perdersi nella ricchezza sensoriale degli oggetti ambientati per ritrovarsi ad ogni cambiamento di sala-scena”.

Come Anceschi stesso avvertiva, questa catalogazione delle modalità espositive non è che un metro di riferimento, costruita com’è nell’ottica del “messaggio prevalente” o della intenzione prevalente. Nella realtà “nessun tipo è un tipo puro” e “[o]gni manifestazione comunicativa è un mix di componenti – agitatoria, propagandistica, didattica o semplicemente notificatoria – più o meno sviluppate”. Aggiungiamo pure che negli ultimi anni nuove possibilità e modalità sono venuti ad arricchire la pratica e il discorso delle mostre – pensiamo solo alla dimensione relazionale, discorsiva, e performativa che tanto piacciono al sistema dell’arte oppure all’esperienza di visita “aumentata” grazie all’utilizzo di dispositivi digitali e multimediali. Anche alla luce di queste direzioni, tuttavia, la tipologia di Anceschi – che parlando di messa in scena, registica e coreografia si riferisce tanto agli oggetti quanto alle persone – rimane un valido e utile strumento di chiarificazione e orientamento.

(Vedi gli articoli correlati.)

Note

  1. Giovanni Anceschi, “Le strutture narrative della scena ostensiva”, in 1961-1991 Mobili italiani: Le Varie Età dei linguaggi, Milano: Cosmit, pp. 111-116.
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