Storia digitale e design / 5 – La sfida

2016-03-07 - Maddalena Dalla Mura

Vorrei provare a trarre qualche considerazione conclusiva – che poi è un modo per aprire – sulla base delle osservazioni che fin qui ho messo insieme a proposito di storia digitale e design.
Nel suo libro Design history and the history of design, pubblicato nel 1989, John Walker elencava le diverse attività in cui sono impegnati gli storici del design, distinguendo fra attività di studio, ricerca e raccolta di informazioni, lavoro teorico, scrittura e comunicazione, attività professionali – come fondare riviste o partecipare a comitati scientifici – e altre forme di impiego, fra cui, in particolare insegnamento e giornalismo. Dagli anni ottanta a oggi tutte queste attività sono state, progressivamente e silenziosamente, toccate o investite dall’avvento del digitale. La questione che oggi si pone è se gli storici del design intendano non solo avvalersi di tecnologie, fonti e risorse digitali – ormai tutti scriviamo email e consultiamo materiali online – ma avviare una consapevole ed esplicita riflessione critica sul senso, i modi e le implicazioni del loro utilizzo, sulle continuità e le eventuali trasformazioni che comportano nel fare, studiare, scrivere, presentare e insegnare la storia del design, nonché impegnarsi per la storicizzazione del design born digital. Come menzionato nei precedenti post, apparentemente questo sforzo è ancora da intraprendere.

Gli autori che finora si sono occupati di storia digitale in generale, ovvero delle sfide che essa pone per singole sub-discipline storiche, hanno già elencato e dettagliato le molteplici ragioni che probabilmente spiegano la resistenza degli storici ad affrontare le questioni poste dal digitale. Fra le altre, oltre a questioni propriamente anagrafiche o generazionali: una riluttanza ad apprendere nuovi strumenti specializzati; la carenza di fondi per lavorare nella direzione delle digital humanities; la scarsa fiducia nelle fonti in Internet; la resistenza alla perdita di individualismo e autorialità e una opposizione al tipo di collaborazione, apertura e trasparenza tipico della cultura digitale; l’abitudine e la preferenza a lavorare da soli e a concepire il fare storia come un processo solitario; la resistenza al lavoro di tipo curatoriale rispetto a quello più tradizionale della indagine documentale; la resistenza ad affrontare il passato più recente – come hanno scritto gli editor del volume sulla storia dello sport da cui sono partita.

Ora, può darsi che gli storici del design e del graphic design in particolare condividano con gli storici di altri settori quelle stesse resistenze, sebbene la mia impressione è che le nuove generazioni di storici del design siano tutto fuorché impauriti di apprendere nuovi strumenti/tools, di collaborare con altri autori e di condurre lavoro curatoriale. Tuttavia sospetto e voglio avanzare l’ipotesi – forse un po’ azzardata – che nel campo della storia del design pesino o contribuiscano nel rallentare la presa in carico esplicita della storia digitale in tutte le sue implicazioni due questioni specifiche, che sono strettamente legate fra loro.

La prima questione – può sembrare paradossale – deriva dall’ambizione e volontà degli storici del design di accreditarsi come storici, appunto, e di accreditare la storia del design come disciplina storica-umanistica, che deve seguire i parametri degli studi storici accademici e prendere le distanze da, piuttosto che essere in dialogo con la pratica del design e l’educazione dei designer, coltivare la prossimità con gli studiosi di storia più che con i designer. Ovviamente, perseguire il rigore e gli approcci propri della storiografia è essenziale per la stessa esistenza e l’avanzamento della storia del design – che, certamente, non può essere concepita come e ridotta a strumento al servizio della pratica e della educazione dei designer. Ciò detto, si può almeno avanzare il sospetto che il prendere e mantenere le distanze dalla pratica del design, porti a non cogliere il valore di alcune sollecitazioni che possono venire a livello di temi e interrogativi ma anche di strumenti e approcci proprio dagli sviluppi della pratica più recente e attuale del design e che potrebbero servire all’avanzamento della pratica storiografica. Le sfide e opportunità aperte dal digitale, in effetti, sembrano piuttosto spingere verso la collaborazione e prossimità, rispettosa, delle competenze di teorici, storici e progettisti. Ed è questa la direzione verso cui mirano le digital humanities. Gli storici del design, se davvero vogliono accreditarsi nel teatro delle discipline umanistiche, non possono mancare questo appuntamento.

L’altra questione riguarda una certa lentezza o ritardo degli storici del design a investire nell’indagare del passato più recente e nella storia del contemporaneo, che nel caso specifico del design hanno molto a che vedere con il digitale. Può darsi che la necessità di accreditarsi come disciplina storica, e di definire un distanziamento cronologico e critico rispetto al loro oggetto di studio, abbia portato gli storici del design all’abitudine di mantenere un certo distacco dal passato più recente. Tuttavia, abbiamo ormai raggiunto un punto storico in cui l’avvento del digitale e il suo impatto sul design sono sufficientemente lontani perché si inizi a farne oggetto di indagine storica. E nel momento in cui si comincia a farlo diventa anche evidente come sia urgente anche affrontare questioni di conservazione, selezione, interpretazione del digitale e attraverso il digitale.

Per concludere, può darsi – come si sente spesso ripetere – che fra qualche anno non sentiremo parlare più di storia “nell’età digitale” o storia “digitale” e si parlerà solo nuovamente di fare storia, con qualunque mezzo. Il problema nel campo della storia del design è che però non si ancora cominciato veramente a parlare e discutere di digitale. Se coloro che si occupano di storia del design intendono veramente accreditare il loro ambito di studi fra le altre discipline storico-umanistiche e se vogliono dare ad esso rilevanza presso la stessa comunità dei designer, allora è forse arrivato il momento di affrontare criticamente le sfide del digitale.

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